ROMA – Matteo Renzi è simpatico e gli piace promettere, gli piace anche spararle grosse. Prima o poi gli italiani faranno le somme e si vedrà cosa Matteo Renzi avrà effettivamente concluso. Eugenio Scalfari non ha mai amato Matteo Renzi, anzi, lo ha anche trattato ruvidamente, al punto da scrivere che Matteo Renzi “è un avventuriero” e che non lo avrebbe votato, in contrasto con la linea prevalente di Repubblica trasformata in piccola Pravda del Governo di turmo da Mario Monti in qua, come se la caduta di Berlusconi avesse risolto tutti i problemi dell’Italia.
Per un po’ di mesi Eugenio Scalfari si era un po’ piegato alla ragion di partito, forse anche cedendo alle pressioni del suo amico Giorgio Napolitano, che gli aveva fatto dipingere Enrico Letta come una specie di redivivo Giolitti. D’altra parte lo stesso Scalfari, proprio nello stesso editoriale di domenica 29 giugno 2014 in cui critica Renzi continua a trattare Walter Veltroni come un grande del pensiero e della storia, solo di qualche gradino inferiore a gente come Montaigne. Ma lo si può capire, Veltroni sa essere molto suadente e sa dire banalità senza molto senso con una soavità e delucatezza e rotondità che possono ingannare anche un uomo scafato come Scalfari; non è un problema di età perché l’amore va avanti da anni.
Con Matteo Renzi invece non c’è nulla da fare. Leggiamo cosa ha scritto domenica 29 giugno Eugenio Scalfari sotto un titolo che è un pugno nello stomaco per Renzi,
“Quant’è bravo il premier. Ma chi ripara gli errori che sta facendo?”:
“Matteo Renzi e [l’Italia] sembrano viaggiare col vento in poppa. Sembrano e in parte è fortunatamente così; in altra parte è un gioco di immagini e di specchi, di annunci ai quali la realtà corrisponde molto parzialmente.
La sola vera conseguenza è il suo rafforzamento personale a discapito della democrazia la cui fragilità sta sfiorando il culmine senza che il cosiddetto popolo sovrano ne abbia alcuna percezione.
Ascoltando il leader appena tornato dalle esibizioni di Ypres e di Bruxelles sembra che la partita della flessibilità economica sia stata guadagnata. Pienamente guadagnata, dopo aver mostrato i muscoli alla Merkel e avere poi concluso con un sorriso, un abbraccio e solide promesse. Il pareggio del bilancio sarà rinviato al 2016, gli investimenti per la crescita saranno consentiti, la fiducia cambierà in meglio le aspettative, le riforme strutturali — che sono la condizione richiesta dalla Germania — saranno fatte anche perché (Renzi lo dice e lo ridice) il premier ci mette la faccia. Più chiaro, più netto ed anche più irresistibile di così non ce n’è un altro. Un vero fico che la sorte ha regalato all’Italia e — diciamolo — al Partito socialista europeo e all’Europa intera. Però…
Però non è proprio così. Intanto per quanto riguarda la flessibilità.
Il pareggio del bilancio non è stato rinviato al 2016 ma in realtà al 2015 il che significa che bisognerà porne le condizioni nella legge di stabilità di quell’esercizio, che sarà in votazione dell’autunno di quest’anno. Si intravede una manovra di circa 12 miliardi e forse più.
Nel frattempo la domanda, cioè i consumi, sono fermi anzi leggermente peggiorati; la “dazione” degli 80 euro, almeno per ora, non ha dato alcun segnale. È certamente presto per giudicare, aspettiamo i dati di giugno e di luglio; ma per ora non ci sono segnali di ripresa. Semmai ci sono segnali di ulteriore aumento della disoccupazione, giovanile e non. Il vero e solo dato positivo viene dall’intervento della Banca centrale europea che nelle prossime settimane dovrebbe intervenire con misure “non convenzionali”. Ma qui non c’entrano né il governo italiano né le istituzioni europee e neppure la Germania. Qui c’entra la Bce e la fermezza di Mario Draghi, sperando che la lotta per alzare l’inflazione abbia successo.La flessibilità concessa all’Italia nei limiti che abbiamo già visto è comunque subordinata a riforme strutturali che incidano sull’economia. Altre riforme interessano assai poco l’Europa e gli stessi italiani. Quelle della legge elettorale nonché la riforma del Senato sono tra le meno interessanti ai fini della flessibilità.
Di esse abbiamo più volte parlato nelle scorse settimane. Far sparire il Senato depaupera il potere legislativo. Il sistema monocamerale avvia inevitabilmente verso un cancellierato e quindi un rafforzamento del potere esecutivo. Si può fare e forse sarebbe anche utile, purché venga riscritta l’architettura dei contropoteri di controllo. Prima e non dopo.
Questo punto è essenziale per la democrazia e non può essere preso di sbieco: va affrontato di petto e — ricordiamolo — da un Parlamento i cui membri, specie in questioni di questa natura, sono liberi da ogni vincolo di mandato e debbono esprimersi a viso aperto, visto che agiscono come rappresentanti del popolo sovrano”.
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