ROMA – I cinesi in Italia fiutano affari e potenzialità, hanno milioni da spendere e regole a dir poco flessibili sul fronte del mercato del lavoro. Dall’altro lato, il nostro lato, abbiamo un Paese in difficoltà economica, che compra poco e investe meno, in cui le banche, paralizzate, non concedono credito alle imprese se non con il contagocce. Si può sintetizzare così lo sfondo dell’allarme lanciato dai servizi segreti italiani: i cinesi stanno facendo shopping in Italia, in termini di investimenti immobiliari, apertura di banche, finanza.
L’articolo su Repubblica parla di “allarme” degli 007 al governo e di “rischi” per il nostro Paese. Certo, l’investitore cinese punterà a delocalizzare la produzione, il che equivale a una perdita di posti di lavoro nel nostro Paese. Ma fa riflettere anche un altro dato: se il cinese, o qualunque altro straniero, compra in Italia è anche perché noi italiani non ci siamo dimostrati all’altezza.
Un caso eclatante, citato sempre da Repubblica: alcuni operatori cinesi, secondo dati del Dipartimento informazioni per la Sicurezza, hanno manifestato interesse per la riconversione dell’ex area Falck di Sesto San Giovanni. Un affare enorme, da miliardi di euro: un milione di metri quadrati da edificare, 4 miliardi di investimenti. L’affare è seguito con interesse dal consolato cinese a Milano e per seguire il business i cinesi apriranno sul territorio una filiale della Bank of China. Non si parla di infiltrazioni mafiose o affari loschi, ma di puro e semplice “business”.
Ma perché i cinesi comprano e gli italiani no? Perché gli italiani, intesi anche come politici italiani, non si sono dimostrati all’altezza: l’area ex Falck è quella delle tangenti del caso Penati, ex sindaco Pd di Sesto ed ex presidente della Provincia di Milano. Indagato nel 2011 per corruzione e concussione proprio per presunte tangenti intascate per la riqualificazione di quell’ex area Falck. Eccolo dunque l’affare targato Cina e non Italia. Lo dicono gli stessi 007 nel loro rapporto: la Cina punta semplicemente a “guadagnare il controllo di importanti aree immobiliari in fase di riconversione in Italia facendo leva sui disequilibri finanziari in cui versano gli enti locali”. In questo caso, più che con la Cina, è il caso di prendersela con quegli enti locali.
Altro esempio, sempre dal rapporto Dis: un colosso cinese del settore ha acquistato il 75% del gruppo Ferretti, maggior produttore mondiale di yacht di lusso. Il problema è che i cinesi dello Shandong heavy industry group hanno intenzione di delocalizzare la produzione degli yacht Ferretti dall’Italia all’isola cinese di Hinau. Cosa che comporta una inevitabile, e dolorosa, perdita di posti di lavoro nel nostro Paese. Ma i cinesi del gruppo Shandong sono i primi a fare una manovra del genere? E quanti sono gli italiani che delocalizzano italianissime imprese all’estero dove il lavoro costa meno? Discutibili che siano, sono le regole base della globalizzazione.
L’Italia non è un Paese per gli investimenti stranieri, lo dicono gli investitori stessi da anni. Perché il costo del lavoro è alto, perché la burocrazia è soffocante. I cinesi a quanto pare stanno invertendo la tendenza, ma non perché l’Italia è migliorata ed improvvisamente è diventata l’Eldorado del “business man” estero. Ma perché è peggiorata, la crisi spinge le imprese a svendere e la politica continua a ingrassare con affari loschi, basta leggere la cronaca. Ecco perché l’investimento cinese in Italia è un rischio e non un’opportunità.
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