Ferrara, 2010: ammazzato a 29 anni. Di che è morto? Di 40 brave persone che in strada e discoteca si fanno i fatti loro

Sahid Belamel

FERRARA – Ti senti male in discoteca, l’amico che sta con te si squaglia perché teme di incontrare un poliziotto, si fa i fatti suoi. I fatti suoi se li fa l’addetto alla sicurezza della discoteca, ti porta fuori e quel che succede fuori non sono fatti suoi. Si fa i fatti suoi il parcheggiatore che ti vede barcollare ma non ha tempo per te, non sei un cliente. Si fa i fatti suoi il tassista che non ti carica perché gli puoi vomitare in macchina. Finisci per strada, già quasi agonizzi, ma si fa i fatti suoi il primo automobilista che passa e ti vede. Ti vede e non si ferma. E si fa i fatti suoi il secondo, il terzo, fino al trentesimo automobilista. E tu muori, ammazzato da una quarantina di persone, di brava e normale gente che si fa i fatti suoi, ammazzato un pezzetto ciascuno, ciascuno a farsi i fatti suoi. Siamo un paese civile, siamo un paese democratico e ricco. Siamo un popolo mediterraneo propenso al sorriso. Siamo un popolo capace di lasciar morire di freddo un ragazzo per evitare problemi e siamo così civili da non chiamare per lui nemmeno un’ambulanza. Se ti senti male il rischio è grosso. Se hai bisogno d’aiuto potresti non trovarlo. L’amico che è con te ti potrebbe abbandonare, i gestori del locale in cui ti trovi potrebbero solo scaricarti fuori dalla porta e tutte le persone che incontri potrebbero volgere altrove lo sguardo pensando ai fatti loro. E così potresti morire.

Questa è una storia vecchia, di febbraio 2010, e il protagonista è un ragazzo marocchino. Se fosse norvegese o veneziano, non cambierebbe nulla, nulla purtroppo sarebbe cambiato. Perché il protagonista, prima di essere marocchino è un ragazzo, un essere umano. Il luogo di questa storia è Ferrara. Non una zona disagiata dell’Italia quindi, ma la ricca provincia della democratica Emilia-Romagna.

A Sahid, il nostro protagonista, piaceva ballare. Un giorno di febbraio dello scorso anno aveva deciso di andare in discoteca. Decisione che gli sarà fatale. Il locale si chiamava e si chiama Madame Butterfly. Sahid aveva bevuto. Congestione. Aveva cominciato a stare male mentre ballava. Era in mezzo a tante persone, che lo hanno visto, lo hanno notato. Nessuno lo ha però aiutato. Sahid verrà trovato la mattina dopo sul ciglio di una provinciale, accovacciato su se stesso con una patina di brina gli ricopre la schiena piena di ferite, deve essersi trascinato sull’asfalto. Lo scuotono. Spalanca gli occhi. Solleva la testa per farla ricadere a terra. Cerca di dire qualcosa. Non ce la fa. Sahid Belamel muore il mattino del 14 febbraio 2010 all’ospedale di Ferrara. «Ipotermia» c’è scritto sul referto medico. Aveva 29 anni appena compiuti. Di lui ci sono alcune immagini che raccontano in parte cosa gli è successo, immagini riprese dalla telecamere di sorveglianza di negozi, case, occhi immobili di quella città che non ha voluto vederlo. Nell’inquadratura immobile della telecamera a circuito chiuso si vede un uomo, nudo dalla cintola in su. Si aggrappa all’inferriata, lancia un urlo muto, si intuisce la parola aiuto. Barcolla, cade. Si rialza, avviandosi verso la strada. Alcune macchine se lo trovano davanti. Lui agita le mani, fermatevi per favore. Rallentano, guardano. Ripartono. Si vedono le macchine che lo ignorano, lo evitano perché evitando lui vogliono evitare guai e problemi. Quello che non si vede sono l’amico che era con lui in discoteca e che lo ha abbandonato per non correre rischi visto che era senza permesso di soggiorno. Non si vedono l’addetto alla sicurezza del locale e il parcheggiatore, entrambi italiani, che si limitano ad accompagnarlo fuori dalla discoteca, senza preoccuparsi di chiamare i soccorsi. Se morisse dentro sarebbe un loro problema, ma una volta fuori è una questione che non li riguarda più. E non si vede il tassista chiamato presso la discoteca che «non acconsentiva ad accompagnarlo presso la sua abitazione» perché preoccupato che gli potesse sporcare la macchina.

Ad un anno di distanza quelli che non si vedono nei fotogrammi delle telecamere di sorveglianza sono quelli che di questa storia rimangono e che di questa morte dovranno render conto. «Si dispone il processo per le seguenti persone perché, avendo trovato o comunque essendo in compagnia di Sahid Belamel, persona in stato di incapacità di provvedere a se stessa e in evidente bisogno di aiuto, omettevano di prestare soccorso non chiamando un’ambulanza per le cure del caso o altra autorità, derivando dal fatto il decesso del Belamel Sahid avvenuto per insufficienza cardiaca conseguente alla esposizione dello stesso a basse temperature esterne privo di indumenti». Quattro persone che dovranno rispondere dell’accusa di omissione di soccorso.

Ma oltre a quei quattro, come emerge dagli atti dell’inchiesta del pubblico ministero Nicola Proto,

depositati in questi giorni, sono in molti ad aver abbandonato Sahid. Da un calcolo eseguito sommando la strada percorsa dall’uomo al numero di macchine viste in quei pochi minuti di filmato carpito dalle telecamere di sorveglianza delle aziende affacciate sulla strada, si vedono almeno una trentina di persone che lo evitano. Trenta esseri umani disposti ad ignorare un altro essere umano bisognoso d’aiuto per non fare tardi ad un appuntamento, per non correre il rischio di una multa per guida in stato d’ebbrezza, per non passare una notte all’ospedale. Nessuno di loro ovviamente pensava o voleva che Saihd morisse, ma nessuno di loro è stato disposto a fermarsi per aiutare un essere umano. Nessuno di loro è stato disposto a sacrificare un attimo del proprio tempo per aiutare qualcuno.

L’agonia di Sahid sarebbe rimasta dove si è conclusa, ai margini della città, nella zona industriale dove si trova anche quella discoteca che attira giovani da tutta la provincia. La Nuova Ferrara, il quotidiano locale, decide invece di fare una cosa diversa. Pubblica una grande foto del giovane marocchino, e nel necrologio scrive «morto nell’indifferenza di tutti» . Riesce a dare il senso di quella morte, a far capire l’enormità di quel che è successo. Arrivano lettere, messaggi delle scolaresche, testimonianze che danno una spinta decisiva all’inchiesta. A ormai 13 mesi da quella notte, il sindaco Tiziano Tagliani non nega l’impatto simbolico della morte di Said, anzi. «Ha lasciato un segno. E spero che abbia fatto riflettere tutti, non solo in questa città, su cosa rischiamo di diventare. Si fa presto a cambiare cultura e atteggiamento, magari senza neppure rendersene conto. Proprio per questo è bene non dimenticarlo in fretta, Sahid» . Il processo comincerà il 15 maggio.

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