Frode Kyoto: un mld di euro di falsa Iva rubata allo Stato. Le mani della jihad

Frode Kyoto: un mld di euro di falsa Iva rubata allo Stato. Le mani della jihad
Frode Kyoto: un mld di euro di falsa Iva rubata allo Stato. Le mani della jihad

ROMA – Frode Kyoto: un mld di euro di falsa Iva rubata allo Stato. Le mani della jihad. Non c’è solo il miliardo di Iva rubato al Fisco attraverso truffa e riciclaggio sui mercati energetici dei crediti ambientali su cui indaga la Procura di Milano: secondo i servizi segreti americani e inglesi i proventi  vanno anche a finanziare le attività terroristiche dei gruppi jihadisti radicali. Le tracce seguite dai pm italiani a un certo punto hanno incrociato le strade battute dai Navy Seals Usa che dando la caccia ad Osama Bin Laden si sono imbattuti in un pacco di fatture.

Il primo indizio di una gigantesca frode fiscale compiuta attraverso i certificati ambientali, quelli introdotti per ridurre le emissioni di gas serra. A Milano 38 sono gli indagati, 80 i milioni sequestrati ai danni di un’associazione criminale anglo-pakistana e una franco-israeliana che dal 2009 al 2012 hanno rubato all’Italia più di un miliardo di euro di Iva.

La truffa è spiegabile se si capiscono i meccanismi delle certificazioni ambientali seguite ai protocolli di Kyoto per ridurre i gas serra. In pratica, se faccio impresa inquino, ma se il limite di emissione di CO2 è 100 e io inquino per 80, posso vendere il 20 di differenza ad un’altra azienda meno virtuosa (che cioè sfora i limiti, cioè inquina più di 100) attraverso l’emissione di un credito (carbon credit) su un mercato dedicato.

Un nome fa da trait d’union tra gli sforzi dell’intelligence occidentale per catturare i capi della rete del terrore e l’inchiesta milanese: Imran Yakub Ahmed, pachistano di 40 anni con passaporto inglese residente in Gran Bretagna e amministratore di “Sf Energy Trading spa”, una società milanese su cui hanno acceso i riflettori i magistrati del pool della Procura coordinato da Francesco Greco. A mettere i pm milanesi sull’avviso era stata la denuncia di una commercialista di Milano spaventata dall’entità e dagli importi (e dagli enormi profitti di Imran) delle transazioni riferibili a società di comodo intestate a prestanome cinesi o inconsapevoli. Società nate al solo scopo di produrre documentazione contabile fittizia, vere e proprie “cartiere” come si dice in gergo.

Le due organizzazioni criminali operavano sia singolarmente che insieme. Acquistavano i certificati in Gran Bretagna, Francia, Olanda e Germania attraverso società fittizie con sede in Italia, vere e proprie «cartiere» che producevano solo fatture e che erano intestate o a prestanome quasi sempre cinesi o a persone estranee ma vittime di furti d’identità.

Dopo aver acquistato senza pagare l’Iva, esclusa in questo tipo di transazioni intracomunitarie, le «cartiere» aggiungevano l’Iva al 20 per cento e vendevano i certificati ad altre società, anche queste fittizie, che facevano da intermediari con gli ignari acquirenti finali. Una volta incassata l’Iva, invece di versarla allo Stato italiano la «cartiera» chiudeva i battenti e spariva nel nulla, mentre i soldi, milioni e milioni di euro, venivano dirottati su conti correnti a Cipro e Hong Kong per finire a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti. (Luigi Ferrarella e Giuseppe Guastella, Corriere della Sera)

 

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