Quarantamila iscritti in meno all’Università: è la differenza tra tra il 2005 (324mila giovani che iniziavano il percorso di laurea) e il 2009 (286mila che hanno fatto la stessa scelta). Nel 2005 si iscriveva ad un corso di laurea il 56 per cento dei ragazzi di 19 anni, il 73 per cento di quelli che avevano un diploma. Nel 2009 il 53 per cento è diventato 47 e il 73 per cento è diventato 60. Insomma all’Università in Italia si va sempre meno, in contro tendenza con il resto del mondo. E ci vanno sempre meno i figli dei più poveri, culturalmente ed economicamente poveri: la percentuale di iscritti figli di genitori con la quinta elementare è calata dal 15 al 12 per cento.
All’Università si va sempre meno per almeno un dannato e ottimo motivo: il “valore” sociale ed economico del “pezzo di carta” è in rapida e ripida discesa. La laurea non garantisce un posto di lavoro e neanche garantisce maggior retribuzioni sul posto di lavoro. L’Università costa, non moltissimo in verità rispetto ad altri paesi. Ma è un costo e “investimento” delle risorse delle famiglie che non rende. Le famiglie se ne sono accorte e stanno rinunciando. Rinunciano ovviamente meno famiglie che quel costo possono permetterselo anche senza garanzie di “ritorni”. Però lungo la strada sempre più giovani e famiglie si pentono della scelta: in Italia il 45 per cento degli universitari non arriva alla laurea. Con il “saldo finale” per cui il paese ha una percentuale di laureati sulla popolazione più bassa dei paesi omologhi in Europa nonostante abbia reso più facile il conseguimento della laurea con il meccanismo del tre più due. Insomma la “voglia” di laurea e di laureati ha portato ad un sistema che conferisce titoli di studio svalutati, lauree di minor valore sociale ed economico che deprimono l’utilità del corso di studi universitario, atenei che reagiscono abbassando ancora il livello di difficoltà e preparazione…un circolo che è già una spirale, un gorgo che trascina giù.
L’Università e la laurea non sono più la cabina e il pulsante “dell’ascensore sociale”. Ci si regola comprensibilmente di conseguenza. Comprensibilmente e di conseguenza in un paese in cui il 54 per cento delle assunzioni avviene per via di conoscenza ambientale, insomma parenti, amici e conoscenti in un intreccio e rete dove la laurea è, nel migliore dei casi, optional e accessorio gradito ma non decisivo. Oltre a quel 54 per cento c’è infatti un altro 25 per cento di assunzioni che avviene per via di cooptazione aziendale, insomma i figli dei bancari a fare i bancari e così via…Alla via della laurea e del curriculum resta solo il residuo striminzito 20 per cento delle assunzioni. Un mercato del lavoro di natura e vocazione più tribale che industriale.
Ma i guai purtroppo non finiscono qui. Studi e verifiche recenti attestano concordi e indiscutibili che solo un 30 per cento degli italiani nella sua vita quotidiana legge. Gli altri non leggono e progressivamente perdono la capacità di comprendere quel che occasionalmente leggono. Solo il 30 per cento degli italiani fa correttamente di conto, con le cifre dell’aritmetica e con i concetti della logica. Il restante 70 per cento non è in grado di “sommare” due concetti in una sola frase. Infatti solo il 30 per cento degli italiani correttamente parla, dove correttamente non vuol dire in rispetto della grammatica e della sintassi, lì la percentuale scende vertiginosamente. Correttamente vuol dire pronunciare frasi dotate di senso compiuto. Il restante 70 per cento ammucchia parole con la stessa tecnica con cui Totò e Peppino De Filippo spargevano punti e punti e virgola e due punti nella lettera dei fratelli Capone alla “Malafemmina”. In questo 70 per cento di “analfabeti di ritorno” ci sono e si contano diplomati e anche iscritti all’Università. E’ questa, oltre al caso delle iscrizioni agli Atenei, la drammatica e consolidata novità.
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