BOLOGNA – Matteo Arpe è stato condannato in secondo grado a scontare tre anni e sette mesi per la vicenda della vendita delle acque minerali Ciappazzi, filone nato dall’inchiesta sul crac Parmalat. Arpe nasce a Milano il 3 novembre 1964 e si laurea nel 1987 in economia aziendale all’Università Bocconi di Milano. La sua carriera inizia da neo laureato fresco di tesi in Mediobanca, dove lavora e fa carriera fino al 2000, quando viene nominato direttore centrale finanza straordinaria.
Proprio dopo la sua nomina iniziano i problemi per Arpe, che entra in rotta di collisione con Vincenzo Maranghi, allora amministratore delegato Mediobanca. E così nel 2001 Arpe approda al Gruppo Banca di Roma, come amministratore delegato del Mediocredito Centrale.
Arpe continua la sua scalata fino a quando nel 2002 viene nominato direttore generale di Capitalia, per poi diventarne amministratore delegato nel 2003. L’ascesa di Arpe sembrava inarrestabile: un manager giovane e tra i più pagati d’Italia, con uno stipendio annuo di circa 6 milioni di euro.
Nel 2007 per Arpe in Capitalia iniziano i problemi. Cesare Geronzi, presidente di Banca di Roma-Capitalia, fa richiesta al presidente del patto di sindacato di Capitalia, l’avvocato Ripa Di Meana, di invitare Arpe a rassegnare le dimissioni. Arpe respinge l’invito e il 22 febbraio arriva per lui una mozione di sfiducia: i mercati reagiscono male alla notizia, i dipendenti lo difendono e il patto di sindacato si trova costretto a confermagli la fiducia.
Quando a maggio 2007 arriva la fusione tra Capitalia e Unicredito italiano, Arpe si dimette da amministratore delegato e il 6 novembre 2007 fonda la Sator, di cui diventa amministratore delegato. Sedi a Roma, Milano e Londra per il nuovo gruppo finanziario che si occupa di private equity, asset managment, private banking e corporate speciality finance.
Ma già a luglio 2007 la rapida ascesa di Arpe sembrava destinata a rallentare. Prima arriva la notifica di rinvio a giudizio, insieme a Cesare Geronzi, per la vicenda della Ciapazzi nell’ambito del crac Parmalat. Poi il 29 novembre 2011 la sentenza di primo grado: il Tribunale di Parma lo condanna a 3 anni e 7 mesi di carcere.
E l’ultimo capitolo dell’arresto della sua ascesa arriva il 7 giugno 2013. La Corte d’Appello di Bologna conferma la condanna a 3 anni e 7 mesi. Non solo carcere, la sentenza prevede 10 anni di interdizione dall’esercizio di impresa e l’interdizione per 5 anni dai pubblici uffici. L’ascesa inevitabile del rampante banchiere subisce così un improvviso colpo d’arresto.
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