ROMA – La pena detentiva potrà essere sospesa nei casi di minorenni condannati per i reati previsti nell’articolo 656 comma 9 lettera a del codice di procedura penale. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale (composta dai giudici Paolo Grossi, Alessandro Criscuolo, Giorgio Lattanzi, Aldo Carosi, Marta Cartabia, Mario Rosario Morelli, Giancarlo Coraggio, Giuliano Amato, Silvana Sciarra, Daria de Pretis, Nicolò Zanon, Franco Modugno, Augusto Antonio Barbera, Giulio Prosperetti) con la sentenza numero 90, di cui riportiamo di seguito il testo integrale.
Nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, promossi dalla Corte d’appello di Milano, sezione per i minorenni, con ordinanze del 19 febbraio e del 13 maggio 2016, rispettivamente iscritte ai nn. 80 e 154 del registro ordinanze 2016 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 16 e 36, prima serie speciale, dell’anno 2016.
Visti l’atto di costituzione di V. S., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 22 febbraio 2017 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi;
uditi l’avvocato Robert Ranieli per V. S. e l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– La Corte d’appello di Milano, sezione per i minorenni, con ordinanza del 19 febbraio 2016 (r.o. n. 80 del 2016), ha sollevato, in riferimento agli artt. 27, terzo comma, e 31, secondo comma, della Costituzione, una questione di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, «nella parte in cui prevede il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione anche per titolo esecutivo di reati commessi da minorenne».
Il rimettente premette che il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Milano aveva emesso un ordine di esecuzione nei confronti di V. S., determinando la pena residua da espiare in un anno e undici mesi di reclusione e 400 euro di multa, «previa considerazione che i reati di rapina aggravata ex articolo 628, comma 3, c.p. di cui alla sentenza 101/2015 di questa Corte erano ostativi alla applicazione della sospensione ex articolo 656, 5° e 9° comma, c.p.p.».
Con atto del 22 dicembre 2015 la difesa di V. S. aveva proposto un incidente di esecuzione ai sensi dell’art. 666 cod. proc. pen. e, dando atto che il Procuratore generale aveva respinto la propria richiesta di sospensione dell’esecuzione, aveva chiesto che venisse sollevata una «“questione di illegittimità costituzionale dell’articolo 656, c. 9, lett. a) c.p.p. in quanto in conflitto con gli artt. 27, 3° c., e 31 della Costituzione, nella parte in cui si riferisce a titolo esecutivo per reati commessi da minorenne”».
A sostegno della richiesta, la difesa del minore aveva fatto presente che «dal mese di giugno 2015 V. S. era domiciliato presso la residenza materna, gravato da obbligo di presentazione alla P.G.; che si era rivolto in via autonoma […] all’Istituto Il Minotauro di Milano intraprendendo un percorso di psicoterapia a cadenza settimanale; e che stava iniziando lo svolgimento di attività socialmente utile presso l’Associazione Campacavallo».
Il percorso di recupero sociale intrapreso era stato però interrotto dalla carcerazione del condannato. Ricostruito il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, la Corte rimettente ha ritenuto che la questione sollevata non fosse manifestamente infondata.
Nei confronti del minorenne, infatti, il divieto di sospensione dell’esecuzione della pena detentiva in caso di condanna per uno dei reati ostativi previsti dall’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. sarebbe in contrasto con l’art. 27, terzo comma, Cost., in relazione all’art. 31, secondo comma, Cost., il quale, prevedendo che la Repubblica protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, rafforza il principio «per cui la sanzione penale deve costituire occasione per il reinserimento sociale e la risocializzazione del condannato minorenne».
Anche nella disciplina del processo penale minorile, dettata dal d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), emergerebbe «una tensione ideale verso l’obiettivo che quel processo sia il più possibile confacente alle esigenze educative del minore imputato, sicché espressamente nel decreto si prevede che il processo penale non interrompa processi educativi in atto (articolo 19, comma 2), si regolano plurimi interventi finalizzati a non intralciare lo svolgersi di un percorso educativo-evolutivo- relazionale, nel presupposto che l’interruzione potrebbe cagionare pregiudizio a personalità in via di strutturazione, e si prevedono istituti inquadrabili in un ampio principio di residualità della detenzione quale paradigma sanzionatorio».
Insomma il processo penale a carico di imputati minorenni si caratterizzerebbe per la specifica funzione di recupero del minore, assunta a «“peculiare interesse-dovere dello Stato”, anche a scapito della realizzazione della pretesa punitiva […] (sent. 49/1973)», sia nella fase di cognizione, sia in quella di esecuzione, «attualmente regolata dall’Ordinamento penitenziario degli adulti, non risultando emanata la “apposita legge” prevista dall’articolo 79 della legge 354/1975».
Peraltro, osserva il giudice a quo, la Corte costituzionale «ha già più volte sottolineato come l’assoluta parificazione tra adulti e minori possa confliggere con le esigenze di specifica individualizzazione e di flessibilità del trattamento del detenuto minorenne», con la conseguenza che «la pura e semplice estensione ai detenuti minorenni della disciplina generale dell’Ordinamento penitenziario […] contrast[a] con le esigenze […] del recupero e della risocializzazione dei minori devianti, esigenze che comportano [appunto] la necessità di differenziare il trattamento dei minorenni rispetto ai detenuti adulti e di eliminare automatismi applicativi nell’esecuzione della pena (Corte Cost. sentenze 125/1992; 109/1997)».
L’esigenza di rendere l’esecuzione penale nei confronti dei minorenni conforme alla richiamata giurisprudenza costituzionale sarebbe, inoltre, alla base del disegno di legge n. 2798 del 2015, approvato dalla Camera dei deputati il 23 settembre 2015, che prevede, tra i criteri direttivi per la riforma dell’ordinamento penitenziario, «l’eliminazione di automatismi e preclusioni che impediscono o rendono gravoso, per gli autori di determinate categorie di reati, l’individualizzazione del trattamento rieducativo (art. 31, lett. e)», nonché «..“l’adeguamento delle norme dell’ordinamento penitenziario alle esigenze educative..” dei minori (art. 31, lett. o)».
In conclusione, ad avviso della Corte rimettente, la sospensione dell’esecuzione della pena prevista dall’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. rappresenta «il complemento necessario alla previsione delle misure alternative alla detenzione carceraria, perché evita gli effetti desocializzanti correlati a un passaggio diretto in carcere del condannato che provenga dalla libertà e che potrebbe avere diritto, previa valutazione nel merito rimessa al Tribunale di sorveglianza, a misura alternativa».
Perciò, nel caso di una condanna per reato commesso da un minorenne, questa sospensione sarebbe «inestricabilmente conness[a] con la finalità (ri)-educativa della pena» e il rigido automatismo che la preclude – «peraltro di per sé privo di apprezzabile significato di “difesa sociale”, fondandosi la preclusione solo su presunzione legale generale e astratta di aver riportato una condanna per taluni reati» – risulterebbe in contrasto con questa finalità, perché comporta la detenzione in carcere in attesa dell’attivazione del procedimento per l’applicazione di misure alternative.
Con l’ordinanza di rimessione il giudice a quo, nel sospendere il procedimento esecutivo, ha disposto la scarcerazione del condannato.
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.
Secondo la difesa dello Stato la questione sarebbe inammissibile, perché mancherebbe, nell’ordinanza di rimessione, la descrizione della fattispecie concreta oggetto del giudizio principale, non avendo il giudice a quo indicato l’epoca di commissione del reato e le condizioni che dovrebbero giustificare l’applicazione delle misure alternative alla detenzione.
La questione sarebbe comunque infondata, in quanto coinvolgerebbe scelte discrezionali riservate al legislatore, che nel caso di specie sono giustificate dalla presunzione di pericolosità dell’autore di reati particolarmente gravi.
3.– Nel giudizio si è costituito anche l’interessato, chiedendo che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma impugnata. Richiamata la giurisprudenza costituzionale sulla finalità di recupero dell’imputato propria della giustizia minorile, la difesa dell’interessato ha rilevato come il rigido automatismo di esecuzione della pena, nel caso di condanna per un reato ostativo ai sensi dell’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., sarebbe in contrasto con la finalità di risocializzazione che deve caratterizzare il trattamento penale del minore anche in fase esecutiva.
La mancata sospensione dell’esecuzione della pena costituirebbe, peraltro, la più grave forma di automatismo, perché realizza la pretesa punitiva dello Stato, senza tener conto dell’esigenza di recupero sociale del minore, demandato alla successiva fase detentiva.
4.– La Corte d’appello di Milano, sezione per i minorenni, con ordinanza del 13 maggio 2016 (r.o. n. 154 del 2016), ha sollevato, in riferimento agli artt. 27, terzo comma, e 31, secondo comma, Cost., una questione di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., «nella parte in cui stabilisce il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione anche per titolo esecutivo concernente reati commessi da minorenne».
Il rimettente premette che il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Milano aveva emesso un ordine di esecuzione nei confronti del minorenne V. S., determinando la pena da espiare in sei mesi di reclusione e 150 euro di multa, per il reato di rapina aggravata, ex art. 628, primo e terzo comma, numero 1), del codice penale, e per il reato di cui all’art. 4 della legge 18 aprile 1975, n. 110 (Norme integrative della disciplina vigente per il controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi).
Con atto del 9 maggio 2016 la difesa di V. S. aveva proposto un incidente di esecuzione, ai sensi dell’art. 666 cod. proc. pen., dando atto che il Procuratore generale aveva respinto la propria richiesta di sospensione dell’esecuzione, in quanto il minore risultava condannato per un reato – la rapina aggravata – che, secondo l’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., era ostativo alla sospensione, e aveva chiesto che venisse sollevata una «“questione di legittimità costituzionale dell’art. 656 c. 9, lett. a) c.p.p., in quanto in conflitto con gli artt. 27, terzo comma e 31 della Costituzione, nella parte in cui si riferisce a titolo esecutivo per reati commessi da minorenne”».
A sostegno della non manifesta infondatezza della questione, il giudice rimettente ha ribadito le ragioni già esposte nell’ordinanza del 19 febbraio 2016, con cui la medesima Corte d’appello aveva già sollevato la stessa questione di legittimità costituzionale.
Secondo il giudice rimettente la norma censurata violerebbe gli artt. 27 e 31 Cost., perché «preclude, automaticamente e solo in forza del titolo del commesso reato, qualsivoglia discrezionalità del Tribunale di Sorveglianza circa la possibilità che un autore di reato minorenne in stato di libertà, ove i processi educativi e rieducativi in atto lo consentano, inizi l’esecuzione penale in misura alternativa anziché fare ingresso in carcere».
Per quanto concerne la rilevanza della questione dovrebbe considerarsi che il minore ha presentato istanza di affidamento in prova al servizio sociale e ha già intrapreso un processo rieducativo, attestato anche dall’Ufficio di servizio sociale per i minorenni in una nota del 7 maggio 2016.
Con l’ordinanza di rimessione il giudice rimettente, nel sospendere il procedimento esecutivo, ha disposto la scarcerazione del condannato.
5.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.
Secondo la difesa dello Stato la questione sarebbe inammissibile, perché nell’ordinanza di rimessione mancherebbe «un’adeguata motivazione in punto di concreta rilevanza della norma censurata», non avendo il giudice a quo indicato «la data di inizio e la durata complessiva» della progettata attività rieducativa», né fatto riferimento alle condizioni che dovrebbero giustificare l’applicazione delle misure alternative al carcere.
La questione sarebbe comunque infondata, in quanto coinvolgerebbe scelte discrezionali riservate al legislatore, che, nel caso di specie, sono giustificate dalla presunzione di pericolosità dell’autore di reati particolarmente gravi.
Considerato in diritto
1.– La Corte d’appello di Milano, sezione per i minorenni, con due ordinanze di analogo tenore (r.o. nn. 80 e 154 del 2016), ha censurato, in riferimento agli artt. 27, terzo comma, e 31, secondo comma, della Costituzione, l’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, nella parte in cui prevede il divieto di sospensione dell’esecuzione della pena detentiva anche per reati commessi da minorenni.
Considerata l’identità delle questioni sollevate, i giudizi devono essere riuniti per una decisione congiunta.
2.– Ad avviso dei giudici rimettenti la disposizione censurata contrasta con l’art. 27, terzo comma, Cost., in relazione all’art. 31, secondo comma, Cost., perché il processo penale a carico di minorenni dovrebbe caratterizzarsi per la specifica funzione di recupero del minore, assunta a «“peculiare interesse-dovere dello Stato”, anche a scapito della realizzazione della pretesa punitiva […] (sent. 49/1973)», funzione chiaramente frustrata dal divieto di sospendere l’esecuzione della pena detentiva.
In particolare i giudici rimettenti rilevano che la Corte costituzionale «ha già più volte sottolineato come l’assoluta parificazione tra adulti e minori possa confliggere con le esigenze di specifica individualizzazione e di flessibilità del trattamento del detenuto minorenne», e che l’estensione ai detenuti minorenni della disciplina generale «contrast[a] con le esigenze […] del recupero e della risocializzazione dei minori devianti, esigenze che comportano [appunto] la necessità di differenziare il trattamento dei minorenni rispetto ai detenuti adulti e di eliminare automatismi applicativi nell’esecuzione della pena (Corte Cost. sentenze 125/1992; 109/1997)».
La sospensione dell’esecuzione della pena, prevista dall’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., rappresenta, secondo i giudici rimettenti, «il complemento necessario alla previsione delle misure alternative alla detenzione carceraria, perché evita gli effetti desocializzanti correlati a un passaggio diretto in carcere del condannato che provenga dalla libertà e che potrebbe avere diritto, previa valutazione nel merito rimessa al Tribunale di sorveglianza, a misura alternativa». Nel caso di condanna di un imputato minorenne la sospensione dell’esecuzione sarebbe «inestricabilmente conness[a] con la finalità (ri)-educativa della pena».
3.– Secondo la difesa del Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in entrambi i giudizi, le questioni sarebbero inammissibili per un difetto di motivazione sulla rilevanza: nell’ordinanza r.o. n. 80 del 2016 mancherebbe la descrizione della fattispecie oggetto del giudizio principale, non avendo il giudice a quo indicato l’epoca di commissione del reato; nell’ordinanza r.o. n. 154 del 2016 mancherebbe l’indicazione della data di inizio e della durata complessiva della progettata attività rieducativa; in entrambe le ordinanze non sarebbero menzionate le condizioni che avrebbero giustificato l’applicazione delle misure alternative al carcere.
Le eccezioni di inammissibilità sono infondate.
Il rimettente, con l’ordinanza r.o. n. 80 del 2016, ha chiarito che il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Milano aveva emesso un ordine di esecuzione nei
confronti di V. S., determinando la pena residua da espiare in un anno e undici mesi di reclusione e 400 euro di multa, «previa considerazione che i reati di rapina aggravata ex articolo 628, comma 3, c.p. di cui alla sentenza 101/2015 di questa Corte erano ostativi alla applicazione della sospensione ex articolo 656, 5° e 9° comma, c.p.p.», e che la difesa dell’interessato aveva proposto un incidente di esecuzione in quanto il Procuratore generale aveva respinto la richiesta di sospensione dell’esecuzione.
L’ordinanza di rimessione, quindi, ha indicato il titolo del reato oggetto della condanna della cui esecuzione si tratta e la pena residua da scontare, precisando che è stato emesso un ordine di esecuzione, è stata respinta la richiesta dell’imputato di sospensione dell’esecuzione ed è stato proposto un incidente di esecuzione.
Analoghe indicazioni sono state fornite con l’ordinanza r.o. n. 154 del 2016.
Anche in questo caso il giudice rimettente ha precisato che il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Milano aveva emesso un ordine di esecuzione nei confronti di V. S., determinando la pena da espiare in sei mesi di reclusione e 150 euro di multa, per una rapina aggravata, ex art. 628, primo e terzo comma, numero 1), del codice penale, e per il reato previsto dall’art. 4 della legge 18 aprile 1975, n. 110 (Norme integrative della disciplina vigente per il controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi), e che la difesa del minore aveva proposto un incidente di esecuzione perché il Procuratore generale aveva respinto la richiesta di sospensione dell’esecuzione, in quanto la condanna era stata pronunciata per un reato – la rapina aggravata – ostativo alla sospensione.
Insomma in entrambi i casi le ordinanze di rimessione hanno indicato i dati di fatto che rendono le questioni rilevanti nei rispettivi giudizi a quibus: l’ordine d’esecuzione della sentenza di condanna per una pena residua inferiore a tre anni, che consentirebbe l’applicazione della sospensione dell’esecuzione, e il titolo del reato per il quale è intervenuta la condanna (rapina aggravata), che preclude la sospensione. Si tratta di dati sufficienti a dimostrare la rilevanza delle questioni, rispetto alla quale non risultano significativi gli altri elementi di fatto dei quali l’Avvocatura generale dello Stato ha lamentato la mancata indicazione.
4.– Nel merito, le questioni sono fondate.
Ai sensi dell’art. 656, comma 1, cod. proc. pen., «[q]uando deve essere eseguita una sentenza di condanna a pena detentiva, il pubblico ministero emette ordine di
esecuzione con il quale, se il condannato non è detenuto, ne dispone la carcerazione. Copia dell’ordine è consegnata all’interessato».
L’art. 656, comma 5, aggiunge che, quando la pena detentiva da espiare, anche se costituente residuo di maggior pena, non è superiore a tre anni, e in taluni casi anche a quattro o a sei anni, «il pubblico ministero, salvo quanto previsto dai commi 7 e 9, ne sospende l’esecuzione».
La sospensione dell’esecuzione costituisce un istituto di favore per i condannati nei cui confronti devono essere eseguite pene detentive brevi, perché ne impedisce l’immediato ingresso in carcere e dà loro modo di richiedere e, se ne sussistono le condizioni, ottenere una misura alternativa alla detenzione.
Per il comma 9, lettera a), dello stesso art. 656, però, la sospensione dell’esecuzione non può essere disposta «nei confronti dei condannati per i delitti di cui all’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n 354, e successive modificazioni, nonché di cui agli articoli 423-bis, 572, secondo comma, 612-bis, terzo comma, 624-bis del codice penale».
Le due condanne alle quali si riferiscono le questioni di legittimità costituzionale in esame riguardano due minorenni ritenuti responsabili di rapina aggravata, ai sensi dell’art. 628, terzo comma, cod. pen., cioè di un reato che, essendo previsto dall’art. 4-bis, comma 1-ter, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), è ostativo alla sospensione.
Ciò significa che sulla base della normativa in questione anche per i minori non può essere disposta la sospensione dell’esecuzione, e quindi non può essere impedito l’ingresso in carcere. Una volta iniziata l’esecuzione, però, ben può essere applicata una misura alternativa, sempre che, come richiede l’art. 4-bis, comma 1-ter, della legge n. 354 del 1975, non risultino collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva.
5.– Come è stato chiarito da questa Corte, il divieto della sospensione dell’esecuzione di cui alla lettera a) del comma 9 citato «si fonda su una “presunzione di pericolosità che concerne i condannati per i delitti compresi nel catalogo” indicato in tale lettera (ordinanza n. 166 del 2010)» (sentenza n. 125 del 2016).
Si tratta, quindi, di stabilire se il divieto di sospensione, posto dalla norma censurata, e la relativa presunzione di pericolosità contrastino con gli artt. 27, terzo
comma, e 31, secondo comma, Cost., laddove si riferiscono all’esecuzione di sentenze di condanna pronunciate nei confronti di minorenni.
È costante nella giurisprudenza costituzionale l’affermazione della esigenza che il sistema di giustizia minorile sia caratterizzato fra l’altro dalla «necessità di valutazioni, da parte dello stesso giudice, fondate su prognosi individualizzate in funzione del recupero del minore deviante» (sentenze n. 143 del 1996, n. 182 del 1991, n. 128 del 1987, n. 222 del 1983 e n. 46 del 1978), anzi su «prognosi particolarmente individualizzate» (sentenza n. 78 del 1989), questo essendo «l’ambito di quella protezione della gioventù che trova fondamento nell’ultimo comma dell’art. 31 Cost.» (sentenze n. 128 del 1987 e n. 222 del 1983): vale a dire della «esigenza di specifica individualizzazione e flessibilità del trattamento che l’evolutività della personalità del minore e la preminenza della funzione rieducativa richiedono» (sentenza n. 125 del 1992).
Di conseguenza è da ritenere che il divieto generalizzato e automatico di un determinato beneficio contrasti con «il criterio, costituzionalmente vincolante, che esclude siffatti rigidi automatismi, e richiede sia resa possibile invece una valutazione individualizzata e caso per caso, in presenza delle condizioni generali costituenti i presupposti per l’applicazione della misura, della idoneità di questa a conseguire le preminenti finalità di risocializzazione che debbono presiedere all’esecuzione penale minorile» (sentenza n. 436 del 1999).
Alla luce di questi principi, costantemente affermati, deve ritenersi che la rigida preclusione posta dall’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. – laddove vieta la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva nei confronti dei condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 e per gli altri reati espressamente indicati – se applicata ai minorenni contrasti con gli artt. 27 e 31 Cost.
Il divieto della sospensione dell’esecuzione pone infatti nei confronti dei minori un rigido automatismo, fondato su una presunzione di pericolosità legata al titolo del reato commesso, che esclude la valutazione del caso concreto, al punto da impedire, come è avvenuto nei giudizi a quibus (in cui era stato spontaneamente intrapreso un percorso di recupero sociale), la realizzazione della specifica funzione rieducativa perseguita con le misure alternative alla detenzione, alle quali la sospensione è funzionale.
È da aggiungere che imporre l’ingresso in carcere a un minore, che potrebbe evitarlo ed essere assoggettato utilmente a una misura alternativa, è un fatto che non solo interrompe il percorso rieducativo eventualmente già intrapreso (come è avvenuto nei casi in esame), ma rischia di comprometterlo definitivamente, anche perché i tempi del procedimento per la concessione di una misura alternativa non sono brevi, e se la pena è particolarmente mite (come quella di sei mesi di reclusione, oggetto della seconda ordinanza di rimessione) è possibile che la concessione della misura richiesta giunga solo quando l’esecuzione non è lontana dal termine.
Nei confronti dei minori la sospensione dell’esecuzione ha una funzione determinante, perché, come ha rilevato la Corte rimettente, «evita gli effetti desocializzanti correlati a un passaggio diretto in carcere del condannato che provenga dalla libertà e che potrebbe avere diritto, previa valutazione nel merito rimessa al Tribunale di sorveglianza, a misura alternativa».
Deve perciò ritenersi che il divieto di sospendere l’esecuzione della pena detentiva breve, applicato in modo indiscriminato al minore condannato per uno dei reati indicati dalla lettera a) del comma 9 dell’art. 656 cod. proc. pen., imponendone l’ingresso in carcere senza alcuna considerazione per le sue specifiche esigenze, introduce un automatismo incompatibile con la necessità di valutazioni flessibili e individualizzate, dirette a perseguire, con il recupero del minore, la finalità rieducativa della pena.
In conclusione, l’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., laddove si applica ai minori, si pone in contrasto con l’art. 31, secondo comma, Cost., nel suo collegamento con l’art. 27, terzo comma, Cost., non potendo ritenersi conforme al principio della protezione della gioventù un regime che collide con la funzione rieducativa della pena irrogata al minore, facendo operare, in sede di esecuzione, il rigido automatismo insito nella previsione della norma denunciata, che preclude ogni valutazione del caso concreto (sentenza n. 16 del 1998).
Pertanto l’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. va dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non consente la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva nei confronti dei minorenni condannati per i delitti ivi elencati.
Per questi motivi la Corte Costituzionale, riuniti i giudizi, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, nella parte in cui non consente la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva nei confronti dei minorenni condannati per i delitti ivi elencati.