Laureato in Lettere e Filosofia, disoccupato, per guadagnarsi da vivere fa la “cavia umana”. E’ la storia, raccontata dal ‘Corriere del Mezzogiorno’, di un uomo di 34 anni di Potenza, R. S., che per sentirsi meno precario e per non cadere in depressione ha deciso di “affittare il suo corpo” alle case farmaceutiche per testare nuove molecole e nuovi farmaci.
“Mi trattano con i guanti bianchi. E poi mi pagano bene”, confessa il potentino. Da 250 a 600 euro al giorno (il guadagno va quindi da un minimo di 3750 euro a un massimo di 12.000 euro) dipende dall’importanza della sperimentazione. Il suo “lavoro” dura ormai dal 2006: 15 o 20 giorni l’anno in una clinica svizzera, dove ingoia pillole e sciroppi o prova pomate sulla propria pelle. Tra un test e l’altro la clinica gli mette a disposizione massaggi, beauty farm, piatti prelibati e una piscina hollywoodiana.
Per fare “la cavia umana” il 34enne ha risposto semplicemente a un annuncio: “Ho dei parenti in Svizzera e quando sono andato a trovarli ho letto un annuncio della facoltà di Medicina che cercava persone disposte a entrare nello staff di un’importante casa farmaceutica. Mi sono presentato, consapevole di trovarmi di fronte a una scelta difficile”.
Nessun problema fin dal primo test su un principio attivo usato contro la gastrite: “Non ho avuto particolari reazioni e così sono andato avanti anno dopo anno. Paura? No, perché sono in mano a scienziati, medici, seri professionisti”. Per diventare una cavia umana, “bisogna semplicemente essere un soggetto in buona salute e non avere problemi psicologici – spiega il giovane -. L’aspirante volontario, inoltre, deve essere disposto a firmare un contratto in cui si specificano diritti, doveri e rischi. È una prassi. C’è, però, anche un’altra strada. Oltre alle persone sane che, in cambio di soldi, assumono le nuove molecole sviluppate in laboratorio affinché ne sia valutata l’efficacia, ci sono persone già malate che si offrono gratuitamente per alimentare una speranza. E questo, in genere, avviene quando ci si trova di fronte a malattie gravi e ritenute incurabili”.
Tra una sperimentazione e l’altra passa del tempo: “Almeno sei-otto mesi di disintossicazione per presentarsi di nuovo in clinica” conclude.
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