ROMA – “Il bullismo non c’entra col mio gesto, è stata colpa di un malessere interiore“. Marco, nome di fantasia per il ragazzo di 16 anni che si è gettato dal terzo piano della sua scuola, racconta la sua verità dal letto dell’ospedale del San Camillo dove è ricoverato. “Sono omosessuale e non posso farci niente“, aveva scritto Marco sul suo profilo Facebook prima di lanciarsi nel vuoto nell’istituto nautico Colonna di via Pincherle, a Roma, lo scorso 29 maggio. Fratture multiple alle gambe, ma sopravvissuto ad un volo di tre piani, Marco si dice pronto a ricominciare.
Dietro la sua decisione di togliersi la vita c’è un senso di inadeguatezza per l’omosessualità appena scoperta, ma non la derisione dei compagni di scuola. Tanto che il fascicolo aperto dal pm Eugenio Albamonte esclude l’ipotesi di reato di istigazione al suicidio, fascicolo aperto contro ignoti. La mamma di Marco sapeva, con lei si confidava. In Italia da 10 anni, origini romene, il padre era in Romania. Un padre violento e manesco, che non avrebbe preso bene la dichiarazione di omosessualità del figlio.
Tra i confidenti di Marco le sue compagne di scuola e due docenti, ma soprattutto la mamma, che dalla dichiarazione di omosessualità gli è sempre stata vicina, dice a Il Messaggero:
“«L’ho sempre seguito e non gli ho mai fatto mancare niente – ha detto la mamma – Io gli voglio bene per come è»”.
Il padre, che è tornato in Romania, Marco non lo vede da almeno tre anni. I compagni che sono andati a trovarlo in ospedale insieme ad alcuni docenti raccontano:
“«Ci ha detto che l’ha fatto perché sentiva che i gay venivano presi in giro – ha detto un compagno – e che aveva paura che, una volta dichiarato il suo orientamento sessuale, avrebbe subito la stessa sorte»”.
Al Messaggero lo stesso Marco spiega:
“«Non sono stato deriso. Non sono una vittima del bullismo, semmai di un malessere interiore, delle mie insicurezze. A pochi avevo confidato la mia omosessualità. Non posso far sentire sui miei compagni il peso del mio gesto. Loro non c’entrano»”
Mai subito angherie per la sua omosessualità:
“«Semmai ci ha diviso una sorta di reciproca indifferenza. Loro con i loro interessi, moto sigarette e uscite di gruppo, e io, sempre più introverso, con i miei, internet, lo studio, i miei silenzi. Ho legato solo con due o tre compagni di classe. Con loro sì mi confidavo. Non sono stato lasciato solo insomma. Al massimo avrebbero potuto intuire la mia inquietudine»”.
Le insegnanti e i compagni di classe gli sono anche ora vicini. Nel letto di ospedale, nel reparto di ortopedia, lo hanno raggiunto per fargli sentire che non è solo. E al Messaggero dicono:
“«Ma quale indifferenza? Tanto dolore non si augura a nessuno». «Siamo ragazzi e magari possiamo fare delle battute, ma insieme non facciamo una classe, ma una squadra», ha detto uno di loro. I messaggi più intimi però sono stati lasciati su internet. «Tvb». «Torna presto. Non vogliamo vedere quel banco vuoto»”.