BREMBATE SOPRA (BERGAMO) – “E’ credibile la pista del cantiere. A noi erano i genitori a darci la forza di continuare”. Il Corriere della Sera ha intervistato il capitano dei Carabinieri Giovanni Mura, origini sarde, 44 anni, da 23 nell’Arma, che il 16 settembre si trasferirà a Parma, al quale resta l’amaro in bocca per il delitto irrisolto di Yara Gambirasio, diventata il simbolo del bisogno di giustizia.
“Quando un caso viene risolto – racconta – la gratificazione è rendere giustizia alle vittime, come chiesto dalle famiglie. Per Yara, giustizia non è stata ancora fatta, quindi il dispiacere è nei confronti della sua famiglia. Ho cercato Yara come se fosse mia figlia. Ho una ragazzina che ha la sua stessa età”.
Quindi Giovanni Mura racconta delle indagini: “Il telefonino di Yara non dava informazioni, nelle telecamere non c’era nessuna immagine utile, nessun testimone. Lavorare nel nulla completo è un’angoscia. Quando Yara è sparita, abbiamo bussato alle porte di tutte le sue amiche, sperando di trovarla. Ma ogni volta che non la trovavamo, era un colpo”.
Poi la pista del cantiere di Mapello. “Non posso entrare nel merito delle indagini ancora in corso. Prima di trovare il corpo di Yara, le indagini si sono indirizzate lì. Un dato di fatto, sulla base dei cani molecolari. Nel cantiere potrebbe anche soltanto essere passato un mezzo che ha caricato Yara poco prima, oppure una persona che con lei aveva avuto a che fare poco prima. I cani fiutano il passaggio della molecola vitale, dovunque essa si sia posata. Non soltanto il passaggio della persona da cui proviene la molecola. Ma siamo nel campo delle ipotesi”.
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