ROMA – Se per ottenere un prestito, un’impresa sana, con una storia di bilanci sempre in utile, deve offrire in garanzia alla banca una somma di pari ammontare, allora che prestito è? Se una mattina la banca chiama e ti dice che devi venire a firmare perché il tasso concordato è salito e che se non firmi ti tolgono il fido, si può dire che la fiducia è stata tradita? Sì, si può dire, ma ai piccoli e medi imprenditori costretti all’apnea e strangolati dall’inaccessibilità di prestiti o mutui o semplici carte di credito aziendale da 3 mila euro, verrà risposto che è colpa del credit crunch. Magari non sanno il significato del termine anglosassone, ma sperimentano ogni giorno sulla propria pelle quella stretta, quel morso, cui la parola allude. Credit crunch, effetto della crisi: come mai, però, in Spagna che è messa peggio di noi, che ha fondamentali per nulla raccomandabili, è più facile ottenere finanziamenti?
Le lettere degli imprenditori italiani ai “microfoni aperti” dal Sole 24 Ore denunciano l’impasse nazionale: tassi troppo elevati, oneri in aumento, garanzie impossibili. Le imprese pagano tassi di interesse doppi rispetto alla Francia e alla Germania. Gli impieghi sono in forte calo dal 2006. E l’Italia non cresce: la mancata crescita si autoalimenta, in questo momento stiamo peggio che negli anni Trenta, dove dopo la grande recessione del biennio 30/31 ci fu una risalita, mentre l’economia italiana dopo il 2008/2009 sembra essersi adagiata sulla prospettiva di sviluppo zero.
A dicembre 2011 la riduzione dei prestiti era già stata pari all’1% che, cumulato nel trimestre sale all’1,2%. Lo spread pagato dalle imprese sui prestiti invece era quasi raddoppiato, dall’1,7% al 2,8, un salto che ha portato l’onere medio presso le imprese al 4,2%. Segnala ancora il Sole 24 Ore che anche la domanda di prestiti è in calo, non quanto però il livello della stretta creditizia. Significa che “il cavallo non beve”? Non proprio: un sondaggio condotto nel nord est ha dimostrato che l’80% delle imprese si era rivolto al credito informale, locuzione eufemistica per dire strozzini.
Il problema principale, al di là della fatica quotidiana di star dietro a banche tetragone e come chiuse nel bozzolo della loro autosalvaguardia (le capitalizzazioni forzate e troppo onerose restano il problema), il problema dicevamo riguarda gli effetti nefasti sulla competitività. Per le Pmi lo spazio di manovra è ridotto al lumicino, schiacciate come sono dal gap competitivo con la Germania: 600/7000 punti base di differenza sui tassi di interesse nel picco della crisi tra aziende italiane e tedesche sono un ostacolo insuperabile per la posizione di mercato della concorrenza italiana.
Per i più grandi con la fortuna di avere controllate all’estero, magari in Germania, la via di uscita è stata accedere al credito internazionale. Un manager italiano ha fatto un’operazione del genere proprio in Germania: se non avesse trasferito lì il controllo formale dell’azienda non avrebbe potuto accedere a condizioni tanto vantaggiose e avrebbe perso un quarto secco del suo giro d’affari. Fosse rimasto in Italia una banca non si sarebbe fidata nemmeno di fidejussioni di altre banche: in caso di rischio avrebbero pagato loro.
Ma è proprio questo il punto: la fiducia interbancaria non esiste più. Gli istituti preferiscono bloccare la loro liquidità nella cassaforte della Bce, dalla quale prendono a prestito all’1% e realizzano un profitto certo comprando titoli di stato, non certo investendo in attività industriali. “Bisogna saper fare i banchieri anche quando le cose vanno male” diceva Mario Draghi nelle ultime Considerazioni da governatore della Banca d’Italia.