ROMA – La saggezza popolare insegna che c’è chi nasce con la camicia e chi no. Di certo c’è che chi la camicia l’ha, che ci sia nato o meno, se la tiene ben stretta. In un’economia in crisi, in uno Stato alla perenne ricerca di denaro, in una società stracolma di disoccupati e ancor più di precari, ci sono due tipologie umane che di tutto questo possono infischiarsene. Due realtà sociali che non hanno idea di cosa voglia dir crisi e che non solo non sono nemmeno sfiorate dalla possibilità di veder messi in discussione i loro introiti, ma che al contrario li vedono aumentati e garantiti ogni giorno di più: i grandi manager e, ovviamente, i politici. Sono i “senza fondo d’Italia”.
In due articoli paralleli apparsi sul Corriere e firmati rispettivamente da Sergio Rizzo uno e da Gianantonio Stella l’altro, si raccontavano due vicende, due storie apparentemente distinte tra loro ma che narrano in realtà due aspetti dello stesso fenomeno: “la difesa della camicia” appunto.
I più noti difensori della camicia sono senza ombra di dubbio i politici. In un Parlamento perennemente spaccato, tra insulti, cartelli, processi negati e non, ritorna regolarmente la sintonia tra maggioranza e opposizione quando si tratta di autoassegnarsi dei fondi o di difendere dei “diritti” acquisiti. E’ successo nel 2002 quando una leggina raddoppiò i rimborsi elettorali, approvata coi voti della maggioranza di destra e di quasi tutta l’ opposizione. E accade lo stesso nel 2006 quando si stabilì che quei «rimborsi» andassero erogati anche in caso di fine anticipata della legislatura. Gli esempi di autodifesa sono poi molti, il più recente riguarda il taglio iniziale del 50% ai «rimborsi» (circa 200 milioni l’ anno, dose doppia se ci sono davvero le elezioni) previsto dalla prima bozza della manovra di maggio 2010, che è stato via via ridotto al 10%. Di più: mentre i tagli agli stipendi pubblici scattavano da subito, la prima sforbiciata ai rimborsi elettorali fu fissata nel 2013. Nessuna nuova quindi se in questi giorni è spuntata una proposta che di fatto punta a destinare altre centinaia di milioni di euro alla casta.
Anche se i soldi per la ricerca non ci sono, anche se per restaurare il Colosseo bisogna chiedere aiuto ai privati, anche se si aumentano le accise sui carburanti, per i partiti i soldi ci sono sempre. La proposta è contenuta in un disegno di legge da questa settimana alla commissione Affari costituzionali con la firma di 58 deputati di tutti gli schieramenti. Disegno che vuole aumentare la quantità di denaro destinata al finanziamento pubblico ai partiti che, invocato da uno schieramento trasversale, rischia di arrivare a 185 milioni di euro più di quanti già ne incassano oggi. Praticamente un raddoppio. Il modello da seguire, dice la proposta di legge sotto un titolo nobile quanto vago («Disciplina dei partiti politici, in attuazione dell’ articolo 49 della Costituzione, e delle fondazioni politico-culturali…») sarebbe la Germania dove i partiti possono avere al massimo 133 milioni l’ anno, ma «per le fondazioni politiche è stato fissato uno stanziamento pari a circa 334 milioni». Totale: 467. La nuova legge, fatti due conti, propone che in proporzione alla Repubblica tedesca le nuove fondazioni «culturali» dei partiti italiani debbano ricevere, come dicevamo, 185 milioni l’ anno. Da aggiungere, si capisce, ai rimborsi. Totale, calcolando già ora le sforbiciate ai rimborsi futuri non ancora date: 345 milioni di euro. Che passi o meno la sostanza non cambia. Che la politica e i partiti debbano essere finanziati è assolutamente giusto, altrimenti come è noto sin dall’antica Grecia, la politica diventerebbe appannaggio dei ricchi ma, verrebbe da dire, c’è modo e modo? Un conto è finanziare la politica con denaro pubblico, altra cosa è strafare e approfittarsene. In Spagna, per dire, allo scoppio della crisi, governo e Parlamento decisero di tagliare subito i soldi ai partiti: da 136 a 119 milioni di euro.
Accomunati ai politici dalla stesso attaccamento alla camicia, i grandi manager che, dopo esser stati profumatamente retribuiti con stipendi da favola, prima di abbandonare il ponte di comando, si sono garantiti buone uscite, vitalizi e benefit. Rizzo porta ad esempio alcuni casi, come quello di Antoine Bernheim, a cui le Assicurazioni Generali versano una pensione supplementare di un milione e mezzo l’ anno, reversibile al 60% alla moglie e a cui in passato erano stati garantiti benefit come l’ uso di una bella casa a Venezia, di un ufficio nel centro di Parigi e viaggi in aereo fra l’ Italia e la Francia a spese della compagnia. Privilegi poi dolorosamente rivisti, stando alle notizie trapelate sulla stampa. Ma il vitalizio no, quello non si tocca. E come lui ce ne sono molti, tra i cosiddetti grandi manager ovviamente. Fece scalpore, già a metà degli anni Novanta, la notizia che a quattro altissimi dirigenti del gruppo Fiat era stata assicurata, per contratto, una forma di garanzia simile proprio a un vitalizio. Il quotidiano Mf fece i nomi: Giorgio Garuzzo, Paolo Cantarella, Giancarlo Boschetti e Francesco Paolo Mattioli. E poi ci sono le consulenze, quei contratti che garantiscono retribuzioni ricchissime dopo che si è lasciata l’azienda, le buonuscite milionarie, vedi i 40,6 milioni di euro incassati da Alessandro Profumo dopo tredici anni e mezzo alla guida di Unicredit, nulla a fronte dei 16,6 milioni che Cesare Geronzi intascherà per undici mesi e mezzo alle Generali. Parliamo di 47.982 euro al giorno. E poi i benefit, dall’uso di abitazioni e uffici al mantenimento della segretaria. Tutte cifre, soldi, che si aggiungono a quelli che questi manager hanno percepito in passato e che, come nel caso di Geronzi, si aggiungono a quelli che gli paga lo Stato sotto forma di pensione. Pensione che spetta a Geronzi dal 1996, quando gli vennero liquidati 54 milioni di lire (lordi, s’intende) al mese: 36,6 dall’ Inps e 17,4 dal fondo della Cassa di risparmio di Roma. Anche in questo caso, come per i politici, è chiaro e giusto che un buon manager che fa funzionare e guadagnare un’azienda sia ben retribuito per questo, ottimante retribuito anche. Ma non si capisce perché anche alcuni cattivi manager che non hanno certo fatto la fortuna delle aziende per cui hanno lavorato debbano essere strapagati, come non si capisce perché entrambi, buoni e cattivi manager, debbano continuare a prendere vagonate di denaro anche dopo aver smesso di lavorare.
Non c’è crisi che tenga ne tantomeno morale che giustifichi. L’unica ratio è quella di restare attaccati con unghie e denti ai benefici acquisiti, infischiandosene di quello che accade nel resto del mondo e, soprattutto, nel resto del Paese. Si può tagliare su tutto, in politica come in azienda. Si possono tagliare la ricerca e i ricercatori, si può licenziare e mettere in cassa integrazione. Ma i rimborsi ai partiti e le retribuzioni dei manager non si toccano perché, come di diceva il Marchese del Grillo: “io so io, e voi non siete un…”.
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