ROMA – Tagliare di 400 miliardi di euro il debito pubblico dell’Italia trasformando le quote detenute dai creditori (ancora in maggioranza italiani) in titoli di un fondo del patrimonio degli immobili statali: è la ricetta per liberarsi della zavorra del debito e far ripartire la crescita che Roberto Poli, 75 anni, già presidente dell’Eni per 9 anni, fornisce a Fabio Venturini del Corriere della Sera:
La necessità, sostiene Poli, è «di convertire una parte significativa dello stock di debito pubblico in quote di un fondo del patrimonio pubblico immobiliare da valorizzare e rendere redditizio tramite una gestione professionale con degli obiettivi chiari. Contemporaneamente occorre riconsiderare e riqualificare le spese reintroducendo la distinzione tra quelle obbligatorie, destinate a soddisfare le esigenze di base dei cittadini, e quelle facoltative. Le prime vanno riviste selettivamente, mentre le seconde sono da tagliare».
La situazione della finanza pubblica in Italia, conclude uno studio di un pool di analisti coordinati da Poli, è drammatica perché il Paese da vent’anni è in avanzo primario (entrate maggiori delle uscite al netto della spesa per interessi) ma spreca tutte le risorse succhiate ai contribuenti e drenate dai tagli al Welfare per pagare gli interessi sempre più alti su un debito sempre più alto. Quindi, per Poli,
«servono provvedimenti straordinari, incisivi e contemporanei. Serve una rivoluzione che Renzi può fare. I punti fondamentali sono tre.
Primo: riduzione dello stock di debito pubblico per un ammontare di almeno 400 miliardi di euro destinando parte importante del risparmio d’interessi alla riduzione delle imposte alle imprese e ai cittadini, con l’effetto di favorire la crescita.
Secondo: revisione straordinaria e completa della spesa pubblica per ridurre il deficit annuale puntando su un forte aumento della produttività e meccanismi avanzati di controllo.
Terzo: approvazione di nuove regole che, mantenendo la libertà di spesa delle amministrazioni locali e degli enti centrali, assicurino che essa avvenga secondo criteri di produttività».
Venturini sintetizza lo studio di Poli ricostruendo gli ultimi due decenni della finanza pubblica italiana, un circolo vizioso di tagli, tasse e contrazione della crescita:
Negli ultimi 20 anni l’avanzo primario italiano ha rappresentato mediamente il 2,1% del Prodotto interno lordo (Pil) contro lo 0,2% della Germania. Il problema è che tanta abbondanza è finita nella voragine della spesa per interessi da pagare sul debito pubblico che, per l’Italia, ha significato 1.650 miliardi (pari al 6% del Pil), contro 1.058 miliardi d’interessi pagati dalla Germania (anche in questo caso dal 1995, pari al 2,4% del Pil), 870 miliardi dalla Francia (2,6% del Pil), 386 miliardi dalla Spagna (2,4% del Pil). «In sintesi», commenta Poli, «un debitore con debito elevato paga interessi più che proporzionali. E tutto questo è la conferma del peccato originale che l’Italia si trascina dal 1992, l’anno della firma del Trattato di Maastricht, sottoscritto pur avendo un parametro del tutto fuori controllo: il debito pubblico, che rappresentava il 104,7% del Pil contro il 42% della Germania, il 39,7% della Francia e il 45,5% della Spagna».
L’intenzione era diminuirlo progressivamente. Fino al 2007 l’Italia era l’unico Paese che l’aveva ridotto in rapporto al Pil. Poi a causa della grande crisi, dal 2008 è cambiato tutto. Infatti il saldo a fine 2013 è risalito al 132,3% del Pil contro l’80,4% della Germania, il 93,5% della Francia e il 93,7 % della Spagna. La beffa è che il debito pubblico italiano resta fuori controllo nonostante i sacrifici per contenerlo, che peraltro hanno dato risultati significativi. Tanto che negli ultimi 20 anni il debito pubblico lordo è cresciuto in termini percentuali sul Pil di 28 punti in Italia, 38 in Germania, 53 in Francia e 48 in Spagna.
«Nei tre Paesi presi come confronto il debito pubblico è aumentato in misura significativa anche dopo il 2008», commenta Poli, «perché aprire il rubinetto della spesa pubblica è servito a ridurre, almeno in parte, gli effetti negativi della grande crisi. L’Italia non ha potuto farlo nel tentativo di tenere sotto controllo il debito pubblico ed il deficit annuale grazie all’avanzo primario, ma il prezzo pagato dal Paese è stato alto. L’avanzo primario significa una tassazione maggiore, minori spese correnti e investimenti, riduzione dei consumi. E ciò ha comportato un trasferimento massiccio di risorse dall’economia reale a quella finanziaria. Una vera doccia fredda, e prolungata, sulla crescita».
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