ROMA – In Italia un miliardo di ore di cassa integrazione, oltre due milioni e centomila disoccupati per un tasso record negli ultimi anni dell’8,5%. Ah, un giovane su tre non lavora. In Germania vanta ben altro record: quello degli occupati, saliti per la prima volta oltre la soglia dei 41 milioni.
In Italia i dati dell’Inps, dell’Istat e della Cgil concordano nel certificare che siamo in recessione. Le grandi imprese producono più che altro dei cassintegrati. Dall’industria vengono oltre il 72% delle ore di cassa integrazione ordinaria, il 91% di quella straordinaria, il 40,7% di quella in deroga. Il miliardo di ore di cassa integrazione del 2011 si traduce in 3,4 miliardi di minor reddito e conseguentemente di minori consumi. Mezzo milione sono i lavoratori andati in cassa integrazione “a zero ore”, 7.300 euro a testa di stipendio in meno. E mentre crescono i cassintegrati, calano gli occupati, in tutti i settori: -3,2% in trasporto e magazzinaggio, -2,7% in attività professionali, scientifiche e tecniche, -2,7% nelle costruzioni.
In Germania nel 2011 gli occupati sono aumentati di 535.000 unità, l’1,3% in più rispetto all’anno passato. L’indice della domanda di manodopera ha toccato quota 180 punti, il livello più alto dal 2004. L’incremento c’è in tutti i settori ma si fa sentire in modo più marcato nel settore interinale, nel commercio, nell’edilizia, nella gastronomia e nella sanità. Ma anche i grandi gruppi tedeschi, da Siemens a BMW, fino a Deutsche Bahn, hanno ripreso ad assumere. La Siemens anzi più di un anno fa promise solennemente che non avrebbe mai più licenziato. I disoccupati sono 2,5 milioni, per un tasso che è sceso dal 6,8% al 5,7%, il più basso degli ultimi vent’anni. Per dare un’idea, solo nel 2005 i senza lavoro erano cinque milioni, il doppio. I consumi non possono che avere una ricaduta positiva: +1,2 nell’ultimo anno. E nel 2012 i tedeschi si ritroveranno in tasca in media 160 euro in più.
Come ultima beffa, un rapporto dell’Ufficio statistico del dipartimento del lavoro americano stabilisce che nel 2010 gli italiani hanno lavorato in media il 25% di più dei tedeschi: 359 ore annue in più. Calcolando 20 giorni lavorativi al mese, gli italiani hanno lavorato 7,04 ore al giorno contro le 5,9 dei tedeschi. Con esiti differenti sul piano della produttività, come abbiamo visto.
Le cause del successo tedesco e del nostro insuccesso sono molteplici e non è detto che una sia prevalente. Per iniziare, la Germania è più ricca e produce di più: il prodotto interno lordo dei tedeschi è mille miliardi di euro maggiore del nostro e in previsione il divario è destinato ad aumentare. La Germania è il secondo esportatore e il secondo importatore al mondo. Le grandi aziende tedesche sono tante. Dei primi 500 gruppi al mondo per fatturato, 37 sono “made in Germany”: tutte sono rimaste a creare lavoro ed economia dentro i confini nazionali, al netto di un tasso fisiologico di delocalizzazione. In Italia di grandi gruppi industriali privati è rimasta quasi solo la Fiat, che però guarda sempre di più al mercato americano e alla manodopera non italiana.
Delle differenze nella gestione dei conti pubblici se ne è parlato tutto l’anno scorso e i mercati finanziari lo hanno tradotto in termini di spread, ovvero del divario fra il rendimento dei nostri Btp e dei bund tedeschi. Poi la Germania non è certo un Paese dal fisco leggero, sul modello americano, ma non raggiunge mai i nostri livelli di pressione fiscale e soprattutto di carico di imposte su chi apre un’impresa e assume lavoratori. Noi abbiamo una pressione fiscale oltre il 45%. Chi rischia i propri soldi in un’impresa e crea lavoro paga quasi cinque volte le tasse di chi si dedica a investimenti finanziari. La spesa per la ricerca in Italia è ai livelli più bassi in Europa, non così in Germania.
Fra il 2002 e il 2004, sotto la guida del cancelliere Gerhard Schroeder, i tedeschi hanno varato una politica di drastiche riforme, potendo peraltro sforare per più anni i parametri di Maastricht, cosa che a noi non viene consentita. In Italia l’unica riforma vera negli ultimi anni è stata la legge 30 del 2003, quella che ha introdotto la “flessibilità” e nuove forme contrattuali alternative all’assunzione a tempo indeterminato. E’ conosciuta come “legge Biagi”, perché ispirata al “Libro Bianco sul mercato del lavoro” ideato e coordinato dal giuslavorista Marco Biagi, ucciso nel marzo 2002 dalle Brigate Rosse. La definizione tuttavia è impropria perché nella legge firmata dall’allora ministro del Lavoro Roberto Maroni si salta tutta quella parte dedicata agli “ammortizzatori sociali” che dovevano compensare la precarietà dei nuovi contratti. Da allora, otto anni fa, l’argomento “lavoro” non è stato più fra le priorità della politica italiana.