L’impresa di fare impresa: in Italia le tasse più alte d’Europa

I numeri sono pubblici e raccontano una storia indiscutibile: fare impresa in Italia è un’impresa, le tasse sono le più alte d’Europa. Quali numeri? Quelli che arrivano dalla Banca mondiale e da uno studio, “Paying Taxes 2011”, che mostra come, in Italia, il peso complessivo di tributi nazionali e locali e dei contributi sociali è del 68,6%, il più alto tra i Paesi europei e tra i più alti al mondo. La media europea è del 44,2% e quella mondiale del 47,8%.

Il dossier della Banca Mondiale prende in esame 183 Paesi e, conti alla mano, mette l’Italia risulta al centosessantasettesimo posto, ovvero tra i Paesi in cui complessivamente è più pesante il carico del prelievo. A pesare, manco a dirlo, sono soprattutto le tasse sul lavoro che rispetto al tasso complessivo del 68,6% rappresentano il 43,4% del carico. Un’enormità che scoraggia chi impresa vorrebbe fare. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: aziende che non investono e che non assumono perché costa troppo: via libera, quindi, nella migliore delle ipotesi a forme contrattuali assolutamente precarie o, peggio, al lavoro nero.

Qualche giorno fa, su Blitz Quotidiano, Lucio Fero ha riportato altri numeri, che sembrano raccontare una storia diversa e inconciliabile con quella della Banca Mondiale. E’ solo un’illusione prospettica: i due gruppi di numeri sono entrambi veri e rappresentano le due facce della stessa medaglia. Scriveva Lucio Fero che l’Irpef media pagata in Italia è appena il 18.7%, “quasi la metà di quella percentuale che il Berlusconi anti tasse dichiarò tanto tempo fa congrua, giusta e invalicabile:
“Se uno paga un terzo del suo reddito in tasse, va bene, altrimenti si spiega anche se non si giustifica l’evasione”. Così diceva Berlusconi e molti convennero con lui. E chi non era proprio d’accordo disse e dice ancora che sarebbe giusto pagare il 33 per cento, purtroppo non si può fare solo perché lo Stato ha tanti debiti e tante spese. Tutti dissero, dicevano e dicono: magari potessimo pagare solo il 33 per cento. La realtà dice: magari gli italiani pagassero il 33 per cento, sarebbe quasi il doppio di quanto pagano adesso”.

Ma allora paghiamo troppo o troppo poco? La risposta è che paghiamo troppo se siamo in regola e che invece evadiamo molto, molto di più. Metà della popolazione italiana, infatti, racconta al fisco di vivere con meno di quindicimila euro annui. Da qui la miseria dell’imponibile. Quanto ai ‘ricchi’ con oltre 70.000 euro annui dichiarati, sono appena il 2.1% della popolazione.

La verità, in tutti questi numeri, è che esistono due categorie letteralmente “massacrate” dalle tasse: i lavoratori dipendenti, che per evadere devono inventarsi un secondo lavoro in nero visto che le tasse sono trattenute in busta paga, e gli imprenditori tutti: piccoli, medi e grandi. La soluzione, almeno a parole, è semplicissima: bisogna defiscalizzare il lavoro, un qualcosa che dovrebbe far parte dell’agenda sia della destra sia della sinistra. Per interessi opposti ma convergenti. Il leader del Pd Pier Luigi Bersani nel suo elenco sui valori della sinistra letto nella trasmissione di Fabio Fazio e Roberto Saviano ha anche provato a dirlo. Impettito e un po’ rigido Bersani ha detto che in un Paese normale assumere un precario non può costare meno che assumere a tempo indeterminato. Assolutamente vero: il problema, ancora una volta, è quel 43,4% di carico dovuto al costo del lavoro. Peso che non andrà via a parole. Peso che non è stato minimamente scalfito da chi, dell’abbassare le tasse ha fatto la principale bandiera della sua più che quindicinale discesa in campo, Silvio Berlusconi.

L’ha sempre promesso e non l’ha mai mantenuto: una volta per l’undici settembre, un’altra volta per la crisi, un’altra volta ancora perché il suo governo è stato pugnalato troppo presto. Berlusconi, nessun dubbio in proposito, lo prometterà ancora. E forse vincerà anche le prossime politiche. Quanto alle tasse, i numeri della Banca Mondiale sono là a ricordare che fare impresa in Italia non conviene a nessuno e che quando le imprese chiudono, magari per trasferirsi all’estero, un pensiero a quella centosessantasettesima posizione su 183, forse, vale la pena di farlo.

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