ROMA – Comunque andrà la vicenda Parmalat, l’Italia ci ha già perso la faccia. Forse di utile resta solo piangere sul latte versato, su un capolavoro di improvvisazione, un manifesto di impotenza che ha consegnato nelle mani di un gruppo francese indebitato fino al collo e che non pubblica bilanci da qualche anno, il gioiello restaurato dell’agroalimentare nazionale.
Lactalis, con un tempismo forse sospetto ma sicuramente risolutivo, ha messo sul tavolo i 3,3 miliardi di euro necessari per l’offerta pubblica di acquisto sulla totalità delle azioni Parmalat. Dopo aver già rastrellato il 29% con un investimento di 1,2 miliardi. Insomma una strategia aggressiva quanto si vuole, ma che almeno ha il pregio di rispondere a una precisa politica industriale. Che almeno riempie di un contenuto l’astratto concetto di francesità, qualcosa, evidentemente, di profondamente diverso dal corrispettivo geografico di italianità.
Il momento clou dell’intera operazione, lo slow-motion illuminante della debacle, avviene nella prima mattina di martedì 26 aprile 2011 a Villa Madama, Roma: protagonisti Nicolas Sarkozy e Silvio Berlusconi.
Qui si apre il giallo. In apparenza la reazione dei due uomini di Stato all’annuncio dell’opa di Lactalis è di quelle che si bevono d’un fiato. Berlusconi cade dalle nuvole, è lievemente interdetto, ma è il giorno della grande riappacificazione con i cugini transalpini e non può far altro che benedire la scalata straniera. Giudica addirittura “non ostile” l’opa di Lactalis, cioè un’opa che si prende tutto, sconfessando il frenetico immobilismo capitanato da Tremonti e dai suoi compagni di cordata.
Poiché al grottesco non c’è limite, a un metro da Berlusconi un affabile Sarkozy può mostrarsi nobilmente distaccato e interpretare sorridente la parte del campione del libero mercato: “Parmalat e Lactalis sono due gruppi privati” ha sostenuto, giurando di non essere al corrente degli ultimi movimenti.
A questo punto viene naturale il sospetto: è stata tutta una messinscena, che è servita ai due, Sarkò e Berlù, per mascherare uno scambio non alla pari per i due paesi ma certamente di grande interesse per Berlusconi: da una parte il bon bon Parmalàt, le centrali nucleari, i clandestini e il definitivo tradimento di Gheddafi (piacerà alla sinistra, ma nel mondo rafforza ulteriormente l’immagine degli italiani inaffidabili alleati), dall’altra l’assenso francese alla nomina di Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia, alla presidenza della Banca Centrale Europea: la cosa sembra una vittoria per l’orgoglio italiano, in realtà si tratta di una assicurazione sulla vita e sulla permanenza in carica per Berlusconi, che con questa capitolazione si è tolto di torno, mandandolo a a duemila chilometri da Roma, l’unico serio credibile contendente al posto di Primo Ministro, che negli ultimi due anni non ha mai perso occasione per fare il controcanto al Governo da un pulpito importante anche per la tradizionale indipendenza dal potere esecutivo che nemmeno Mussolini era stato capac e di scalfire.
In cambio di questo, Sarkozy, in un sol colpo, al prezzo di una veloce scampagnata romana, ha visto Lactalis papparsi Parmalat in un boccone, ha ottenuto gli aerei italiani per bombardare Gheddafi, ha incassato il riconoscimento da parte di Berlusconi che nella scala Richter dello tsunami dei profughi la Francia è 5 volte più colpita dell’Italia. Senza contare le assicurazione che i contratti per la tecnologia nucleare restano validi nonostante, o più propriamente a causa, della sospensione della costruzione delle centrali. In cambio ha dovuto solamente accettare che l’italiano Mario Draghi sieda sulla poltrona di Trichet alla Banca centrale europea: un favore minimo al Paese, un boccata d’ossigeno per Berlusconi stesso che non vedeva l’ora e l’occasione per liberarsi dell’unico vero concorrente in Italia al suo potere tanto assoluto quanto inerte.