Quei 380 ebrei bruciati vivi dai polacchi: il pogrom di Jedwabne nel film “Aftermath”

JEDWABNE, POLONIA – Una lapide imbiancata di neve, alle porte del villaggio di Jedwabne, ricorda un frammento di storia che molti polacchi preferirebbero rimuovere. Nel 1941 la popolazione locale, istigata dagli occupanti tedeschi, andò a prendere i vicini di casa ebrei, li radunò nella piazza del paese, li picchiò a sangue, poi portò i sopravvissuti al pestaggio in un granaio li bruciò vivi. Tutti. Quella lapide ricorda il pogrom di Jedwabne, nel quale furono massacrati 380 ebrei.

Un passo indietro. 1939. Patto Molotov-Ribbentrop, accordo di “non aggressione” fra la Germania nazista e la Russia sovietica. La Russia firma e si annette le zone orientali della Polonia. In queste zone rientra Jedwabne, che si trova a 100 km dall’attuale confine russo-polacco. Quando la Germania qualche mese dopo invade la Polonia la bombarda anche di propaganda. Propaganda nazista che fomenta i polacchi contro gli ebrei, accusando questi ultimi di essere collaborazionisti sovietici e complici nei crimini degli occupanti russi.

Nelle prime tre settimane dell’invasione nazista il caos è alleato della giustizia sommaria: il risultato è di 250.000 ebrei massacrati dai loro concittadini polacchi. Poi “a completare il lavoro” arrivano i tedeschi, con le Einsatzgruppen, i gruppi speciali di SS che avevano come unica missione uccidere gli ebrei. Sono meticolosi e hanno pazienza. Sono passati due anni dall’invasione tedesca, è il giugno del 1941 quando, per mano delle Einsatzgruppen, muoiono decine di ebrei a Wizna, pochi km da Jedwabne.

Ma un mese dopo non sono più le Einsatzgruppen ad agire. Il 10 luglio 1941, i polacchi di Jedwabne rastrellano casa per casa i loro compaesani ebrei e anche gli ebrei di villaggi vicini come Wizna e Kolno. Radunano in tutto 380 persone, le portano nella piazza del paese e iniziano a pestarle.

Poi prendono un gruppo di 40-50 ebrei, fra i quali anche il rabbino di Jedwabne, e li costringono a demolire il monumento dedicato a Lenin, fatto costruire dagli occupanti sovietici. Finita la demolizione, il gruppo viene trucidato e sepolto in una fossa comune insieme ai resti del monumento distrutto.

Non sarà migliore la fine degli ebrei rimasti in piazza e sopravvissuti al pestaggio: qualche ora più tardi vengono condotti e rinchiusi in un granaio, al quale viene dato fuoco. Muoiono tutti, bruciati vivi. Per tanti anni la colpa di questo pogrom è stata data alle Eisatzgruppen naziste. Ma, se ancora non è chiara la presenza o meno di qualche poliziotto tedesco, è ormai accertato dagli storici il ruolo determinante del “carnefice della porta accanto” (che è il titolo di un libro sul pogrom di Jedwabne scritto da Jan T. Gross, Arnoldo Mondadori, 2002).

Una strage terribile e rimossa, che ha ispirato “Aftermath”, l’ultimo film del regista Wladyslaw Pasikowski, che parla di una vicenda molto simile, ambientata in un immaginario villaggio polacco. “Aftermath” ha scatenato un furioso dibattito nazionale su come sono stati affrontati gli episodi più oscuri della storia della Polonia.

Per decenni i polacchi tenuta si sono “raccontati” come vittime coraggiose dei nazisti tedeschi e dei russi sovietici. Una “narrazione” che era aveva sufficienti fondamenti di verità da tenere botta e consolare i polacchi durante i 45 anni passati al guinzaglio corto del Patto di Varsavia.

Questo era il passato. Il presente ci dice che la Polonia è un membro della Nato ed ha uno Pil più vivaci dell’Unione europea. La vecchia versione in bianco e nero della storia nazionale sta cedendo il passo a una memoria diversa, fatta di sfumature di grigio, nella quale i polacchi non sono sempre stati dalla parte dei “buoni”.

Un processo che è già avvenuto in altri Paesi con un “passato difficile”: si pensi a quanto la Spagna abbia scavato a fondo nel doloroso periodo della guerra civile fra franchisti e Fronte popolare, dal 1936 al 1939.

Nella Repubblica Ceca si torna a parlare e a discutere di momenti imbarazzanti come l’espulsione dei cechi di etnia tedesca dopo la Seconda guerra mondiale o dei campi di concentramento per zingari gestiti da guardie ceche.

Pasikowski ha le idee chiare: “Meglio affrontare gli errori del proprio passato piuttosto che nascondere la testa sotto la sabbia”. Il suo film ha vinto il premio della Critica al Gdynia Film Festival, il più importante festival polacco, e ora è in tutte le sale del Paese. Questo è bastato a riaprire la ferita di Jedwabne.

In “Aftermath” due fratelli iniziano a scavare nella storia del loro villaggio scoprendo che gli ebrei locali sono stati uccisi dai loro vicini polacchi e che il loro padre era uno dei capi della banda di massacratori.

Il film ha avuto molte critiche da destra, perché “diffama i polacchi”, che vengono dipinti come collaboratori dei nazisti, mentre in tanti rischiarono la pena di morte per aiutare gli ebrei. E poi, secondo i critici, viene sottovalutato il ruolo dei tedeschi in pogrom come quello di Jedwabne.

Secondo i conservatori, l’antisemitismo è stato un problema europeo e non una cicatrice solo polacca. Durante l’Olocausto la maggioranza dei polacchi era indifferente al destino degli ebrei: alcuni aiutarono attivamente i tedeschi, mentre un’altra sparuta minoranza ha corso enormi rischi per salvare i loro concittadini. È la stessa cosa che si è vergognosamente ripetuta in tutta Europa.

Alle argomentazioni dei conservatori si può replicare che l’impatto in Polonia è stato più grande che in altri Paesi, perché qui c’era, prima della Seconda guerra mondiale, la più grande comunità ebraica d’Europa, tre milioni di persone. Ora sono rimasti 20 mila ebrei.

Gli ebrei furono sterminati in tutta la Polonia, ma il monumento di Jedwabne è uno dei più visitati. Il paese è rimasto un povero villaggio sperduto nel nord-est polacco, ignorato dal boom economico vissuto negli ultimi vent’anni dalle altre zone della Polonia, soprattutto la parte centrale e occidentale. Jedwabne resta un luogo noto solo per la strage del 1941, un evento che porta un flusso costante di pellegrini ebrei.

Una convivenza apparentemente pacifica. “Loro non dicono niente a noi e noi non diciamo niente a loro”, ha detto all’inviato del Financial Times una donna di mezz’età vestita di scuro, in giro a comprare fiori nella piazza del paese. “Tutta la vicenda è stata davvero ingiusta. Un sacco di altre città hanno ucciso i loro ebrei: non so perché se la sono presa solo con noi. Ora il mondo intero pensa che quelli di Jedwabne sono tutti dei diavoli”.

La mattina del 2 settembre 2011 i pellegrini si sono imbattuti in una brutta sorpresa: una svastica disegnata con la vernice verde aveva sfregiato il monumento di Jedwabne. Sul muro vicino c’era una scritta nazista in polacco: “Bili latwopalni”, ovvero “Loro erano infiammabili”.

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