JOHANNESBURG – Dei suoi 95 anni di vita, quasi un terzo – 27 anni – Nelson Mandela li ha trascorsi nelle carceri del regime razzista dell’apartheid. Il periodo più lungo e duro, 18 anni, a Robben Island, un’isoletta davanti a Cape Town; sei anni nel carcere di massima sicurezza di Pollsmoor, dove si creano le basi del dialogo con il regime; e l’ultimo nella prigione modello di Victor Vester.
Robben Island era conosciuta fra i militanti antiapartheid come ‘L’università’: sia perché i prigionieri potevano iscriversi a certi corsi di laurea per corrispondenza (Mandela si laureò in Legge con l’Università di Londra); sia perché il carcere divenne una formidabile scuola quadri della resistenza. Le condizioni sono molto dure. Celle minuscole, visite rare e brevi (a Mandela ne viene concessa una ogni sei mesi), cibo scarso, pessimo, sempre uguale. Il lavoro forzato estenuante: prima, a spaccare pietre nel cortile; poi, per 13 anni, a scavare in una cava di calce o raccogliere alghe fra gli scogli.
Nel carcere ci sono molti dirigenti delle organizzazioni antiapartheid, la discussione politica è intensa. A sollevare il morale, giungono dall’esterno le notizie della crescente solidarietà internazionale, della resistenza che riprende forza. Dal 1977, le condizioni di detenzione migliorano. Il lavoro forzato è abolito, Mandela può coltivare un suo orto. Il suo cruccio maggiore è per la moglie Winnie e le figlie Zenani e Zindzi, perseguitate dal regime. Non può recarsi al funerale della madre, morta nel 1968; ne’ a quello del figlio Thembi, morto in un incidente stradale l’anno seguente.
Nel 1982 Mandela viene trasferito nel carcere di Pollsmoor, a sudest di Cape Town, insieme a Walter Sisulu e altri dirigenti Anc. Diventerà il laboratorio in cui si gettano le basi del negoziato. Il cibo è decente, le celle spaziose, le visite più facili e frequenti: per la prima volta in 21 anni può abbracciare Winnie. Fuori il confronto si fa più sanguinoso, ma entrambe le parti iniziano a pensare a una soluzione politica. Il 31 gennaio 1985 il presidente P.W. Botha offre la libertà a Madiba in cambio della rinuncia alla violenza. Mandela rifiuta. Lo stesso anno, dopo un’operazione alla prostata, Mandela ritorna a Pollsmooor ma in una cella diversa, separato dai compagni. Nel 1987 Botha nomina una commissione governativa che intavola con lui discussioni riservate. La nuova cella del leader Anc e’ spaziosa, ma umida. Si ammala di tubercolosi, viene ricoverato in ospedale, poi in una lussuosa clinica.
Nel dicembre 1988, Mandela viene trasferito dalla clinica a Victor Verster, sempre vicino a Cape Town. La sua nuova prigione è un cottage fra gli alberi, con cuoco privato e piscina. All’arrivo, il ministro della Giustizia Kobie Coetsee gli porta una cassa di vino. Non ci sono sbarre o chiavistelli, Mandela può passeggiare nel parco, mangiare quello che vuole e quando vuole. La ”gabbia dorata”, come la chiama lui, è il luogo ideale per la fase finale dei colloqui con il regime.
Incontra personalmente Botha, poi Frederik W. De Klerk, che nel settembre 1989 gli è subentrato alla presidenza. De Klerk a ottobre annuncia la liberazione di Sisulu e degli altri principali dirigenti dell’Anc. Il 2 febbraio 1990 annuncia la revoca dei principali pilastri dell’apartheid e la liberazione di Mandela. L’11 febbraio, l’eroe della lotta antiapartheid esce da Victor Vester una mano stretta a quella di Winnie, l’altra alzata a pugno, mentre cammina incontro a una folla di fotografi e di sostenitori che lo aspettano fuori dal carcere. E’ libero, finalmente.
(Foto Ap/LaPresse)