ROMA – Il 23 ottobre esce il nuovo romanzo di Walter Veltroni, “Ciao”. L’ex (?) politico mette se stesso, sessantenne, a confronto in un’immaginaria conversazione con il padre Vittorio, morto nel 1956, quando il piccolo Walter era nato da solo un anno. Un padre quindi mai conosciuto e con il quale l’ex segretario del Pd si rapporta ribaltando i ruoli padre-figlio.
Veltroni Walter ha 60 anni, mentre Veltroni Vittorio ha i 37 anni che aveva quando è morto, gli anni di uno che potrebbe essere suo figlio. E invece è stato suo padre. Una conversazione surreale, quindi, che diventa un’occasione per fare un bilancio di due esistenze: quella di Vittorio, compiuta. E quella di Walter, arrivata nella sua ultima fase.
Ma fin qui nulla di eclatante. Perché le incursioni di Veltroni nella narrativa, dopo Senza Patricio (2004) e La Scoperta dell’Alba (2006), negli ultimi tempi hanno preso una cadenza quasi annuale: Aspetta te stesso (2007); Noi (2009); Quando cade l’acrobata, entrano i clown. Heysel, l’ultima partita (2010); L’inizio del buio (2011); L’isola e le rose (2012).
Non usuale è invece il fatto che a otto giorni dall’uscita di “Ciao”, giovedì 15 ottobre 2015, siano uscite in simultanea tre recensioni dello stesso libro di tre firme di primo piano per i tre giornali italiani più importanti e diffusi: Pierluigi Battista sul Corriere della Sera, Michele Serra su Repubblica e Massimo Gramellini su La Stampa.
Quella di suscitare una grande attenzione mediatica sulle proprie iniziative artistiche è una innegabile dote di Veltroni. Per averne un’idea basti guardare la sfilata di politici, artisti, giornalisti e vip alla sua seconda prova da regista, “I bambini sanno”.
Non tutto è spiegabile, però, con l’abilità nelle public relation. “Pigi” Battista, editorialista del Corriere, che è nato lo stesso giorno di Veltroni (3 luglio 1955) e lo conosce sin dall’adolescenza, trova punti di contatto con “Ciao” che non sono soltanto generazionali. Ci vede uno “scoop”: Veltroni che dichiara che “la politica è una categoria del passato”, ammette “la sconfitta”. E confessa che il “piacionismo” è stato il punto debole del “veltronismo”:
“Compiuti i sessant’anni, tuo padre sconosciuto che non avevi mai toccato e abbracciato e che non aveva mai potuto stringerti la mano per proteggerti e guidarti, ti viene a trovare in un sogno pieno di parole, di colori, di ricordi, di immagini. […] E gli chiedi perché è venuto da te proprio adesso, perché proprio in questo momento e lui ti risponde: «Perché per la prima volta mi sembri fragile, mi sembra tu abbia bisogno di me». Adesso, a sessant’anni, quando tutti immaginano che tu sia più forte e corazzato. […] Adesso, a sessant’anni, ti senti fragile, più debole, vulnerabile. Adesso, perché quando tuo padre è morto aveva trentasette anni, «solo trentasette anni», e tu puoi dire «oggi potrebbe essere mio figlio, mio padre».
[…] Trattandosi di Veltroni, si potrebbe dire che questo libro contiene uno scoop: la dichiarazione che la politica è per lui un capitolo del passato, di cui andare orgoglioso ma senza evitare di pronunciare, nel colloquio immaginario con il padre ritrovato, una parola molto impegnativa: «sconfitta». «Ho alzato la mano, ho chiesto scusa per non essere riuscito a fare del tutto quello che volevo, e ho lasciato, Senza rancore, senza rumore. Certo, è una sconfitta che mi ha fatto male. L’ho ritenuta ingiusta, ho sofferto. Ma l’ho superata, perché la vita è di più: è sorpresa, è invenzione, è fantasia». E si scorgono anche tracce di un’autoanalisi, di un commento caratteriale e psicologico, nel confronto con il padre, a quello che in passato è stato definito il «veltronismo»: «Credo di sapere che a lui che c’era devo molte delle mie qualità e a lui che non c’era più i miei difetti. Ho cercato per tutta la vita di piacere agli altri. Ho cercato di farmi voler bene anche da chi mi era contro. Era un limite, per il lavoro che facevo». Ci vuole un corpo a corpo con l’immagine del padre, e anche questo c’è nel libro, per parlare così di se stessi.
Il momento della fragilità e della vulnerabilità, dunque. […] Ma la fragilità dei sessant’anni rende ancora più acuta la ricerca del padre che non hai mai avuto. È in questo punto preciso che Walter Veltroni chiede a suo padre di dargli una mano. «Non sono vecchio, ma il traguardo di arrivo mi sembra molto più vicino della linea di partenza. Mi accorgo che la vita, che mi ha sempre dato, comincia a togliermi». È un sentimento «spiazzante», così lo definisce Veltroni. Che ti spinge con più prepotenza a chiederti chi sei. Chi era tuo padre.
Gramellini, vicedirettore de La Stampa, condivide con Veltroni la condizione di orfano. Anche lui ha scritto un romanzo autobiografico in cui parla della madre morta (“Fai bei sogni”, un bestseller). E in quest’ottica legge e recensisce “Ciao”, evidenziando le parti in cui il primo segretario del Pd viene a patti con l’assenza del padre. Anche Gramellini trova un punto di contatto profondo con la vicenda umana di Veltroni. Ancora più profonda se in un dibattito serale ha l’occasione di confrontare Veltroni con Matteo Renzi:
“Il bambino estrae dall’armadio i vestiti del padre morto, li stende sul pavimento e ci si sdraia sopra, ma è troppo piccolo per coprire l’intera superficie. Allora prende le maniche dell’abito e le appoggia su di sé, a simulare un abbraccio. Il nuovo libro di Walter Veltroni è racchiuso in questa immagine dolce e crudele che ogni orfano precoce conosce fin troppo bene. L’autore ha perso il padre a un anno e lo ha cercato per tutta la vita. Arrivato ai sessanta si è riscoperto abbastanza bambino da potersi concedere un gioco della fantasia, immaginando di tornare a casa al culmine di un magico tramonto ferragostano e di trovare il padre, che ormai potrebbe essere suo figlio, in attesa sul pianerottolo. Ciao è la storia di questo incontro impossibile, eppure desiderato come nessun altro da un uomo che ha fatto degli incontri la cifra della sua esistenza e della sua carriera.
Qualche anno fa mi capitò di partecipare a un dibattito pubblico con Renzi e Veltroni. Alla fine mia moglie commentò: «Sul palco c’erano due orfani e una persona cresciuta in una famiglia normale». Non alludeva al fatto che, appena seduti, Veltroni e il sottoscritto avevano pudicamente spento il telefonino, mentre per tutta la sera l’allora sindaco di Firenze ne aveva utilizzati ben tre in contemporanea, uno per prendere appunti, uno per comunicare con i collaboratori in platea e il terzo per aggiornarmi in tempo reale sul risultato della partita del Toro: queste sono differenze puramente generazionali. Quella esistenziale era emersa quando Veltroni aveva motivato la decisione di dimettersi da segretario del Pd con le cattiverie che gli avevano inflitto i compagni di partito. Renzi aveva sgranato gli occhi: «E allora? Ma davvero ti sei dimesso per così poco?». A lui di essere odiato importava nulla già allora. A quelli come Veltroni invece importa moltissimo. E non è, o non è solo, bisogno narcisistico di piacere. È paura di perdere l’amore, la riconoscenza e il riconoscimento altrui. Paura di perdere quello che si è già perso una volta e che, si sa, non tornerà più.
[…] Il libro non è una risposta, ma una domanda infinita, una ricerca intensa che sotto il linguaggio asciutto e a tratti percorso da una vena di timidezza, lascia intravedere una ferita che non si rimargina e semmai si sublima in una condizione universale. «La nostra è diventata una società di fratelli, orfana di padri», scrive. E questa assenza di un’autorità riconosciuta – capace di trasmettere la memoria e di porre dei limiti che «l’erede» imparerà prima a rispettare e poi a forzare per diventare padre a sua volta – ci rende tutti falsamente liberi e drammaticamente smarriti. Liberi e smarriti come si è sentito Veltroni nei momenti culminanti della vita. Raccontando al padre dei giorni in cui decise di lasciare la politica, gli dice: «Mi sarebbe piaciuto in quel momento avere il tuo parere, ma ho imparato da piccolo che essere orfani significa stare in prima fila, un po’ soli con se stessi… Significa condividere i successi e metabolizzare in solitudine le sconfitte. Non si frigna, da orfani». E se si frigna lo si fa in solitudine, paralizzati dall’imbarazzo di essere visti e compatiti. Cioè amati, ma per i motivi sbagliati.
Per quanto Veltroni smussi gli angoli della sua prosa, le prime duecento pagine del libro sono solcate da un commosso rancore, tipico degli orfani, verso chi li ha abbandonati senza né un ciao né un perché. Ma poi arriva il capitolo 16, in cui Walter fa una lista struggente di tutte le cose semplicissime eppure eccezionali che avrebbe voluto fare con Vittorio: «Che mi chiedessi se ho la febbre, che mi guardassi la pagella, che mi rimproverassi, che avessi bisogno di me…» ed è come se a sessant’anni si togliesse un peso dallo stomaco e, finalmente pacificato con se stesso, riuscisse a guardare suo padre negli occhi. Per accorgersi che sono identici ai suoi”.
Michele Serra, nato a Roma un anno prima di Veltroni e cresciuto più o meno negli stessi luoghi e più o meno con gli stessi punti di riferimento, mette più l’accento sulla questione generazionale. I padri da una parte, i nonni e i figli dall’altra:
“Eravate sfrontatamente giovani”, dice il figlio al padre, che lo guarda, nella penombra della stanza, con un sorriso quasi imbarazzato, quasi per scusarsi dell’energia vitale della quale è portatore, di fronte ai dubbi, forse alla stanchezza del figlio ritrovato. […]
Ho un anno in più di Walter Veltroni, sono nato a Roma come lui, in una famiglia borghese come la sua, e la mia prima infanzia è stata spesa in un giardino pubblico (quello di piazza delle Muse) apparentabile a quel Parco dei Daini dove giocava lui da bambino, e dal quale prende abbrivio – omaggio all’infanzia – questo suo romanzo. So di conservare traccia di quel sole, di quei profumi, di quella vertiginosa giovinezza di tutte le cose. Sono dunque nelle condizioni emotive, autobiografiche, direi “climatiche” ideali per condividere la gratitudine all’Italia dei nostri padri e delle nostre madri. Gratitudine che, a differenza di Veltroni, forse non ho avuto abbastanza modo di esprimere ai miei genitori, benché se ne siano andati entrambi in tarda età (ci sono separazioni che non discendono dalla morte, ma dalla vita).
Eppure, una volta chiuse le pagine del libro, mi sono chiesto se l’ingombro dei nostri ricordi non stia diventando – non trovo altra parola – un problema. Nostro e non solamente nostro. Walter Veltroni non è un italiano qualunque. È stato, tra le altre cose, il capo della sinistra italiana tra il 2007 e il 2009, con largo consenso, al culmine di una carriera politica importante e tutt’altro che “conservatrice”. Diciamo – è una battuta, ma non del tutto – che nel caso di una reale compresenza tra i due Veltroni, il grande protagonista sarebbe il figlio, e il padre il suo partecipe telecronista. Eppure c’è, nelle parole del figlio, quasi una timidezza nel rivendicare la propria statura personale e politica, quasi una ammissione di “minorità” rispetto alla breve ma fortunata avventura paterna.
Un’ammissione di sconfitta – la sconfitta delle grandi speranze politiche degli anni Sessanta e Settanta – al cospetto di una vittoria, forse la sola vera vittoria dell’Italia repubblicana: essere riuscita a nascere, a darsi una Costituzione, una fisionomia sociale, culturale, politica. I discorsi “di generazione” lasciano sempre il tempo che trovano. Hanno un picco “basso”, quello della disputa tra tifoserie anagrafiche (vedi lo slogan spiccio della “rottamazione”) e uno “alto”, il dibattito sulla trasmissione del sapere (e del potere); o sull’interruzione, sempre patologica, di quella trasmissione. Questo libro lascia intatto, e forse rafforza, il sospetto che la mia generazione, quella dei sessantenni, patisca una sua specifica incompiutezza: si porti addosso un “complesso della sconfitta politica” in vistosa contraddizione con i valorosi esiti professionali e personali conquistati sul campo.
A differenza di Vittorio Veltroni (e a differenza di mio padre), noi sessantenni non abbiamo conosciuto il fascismo, la guerra, la fame, i bombardamenti delle nostre case; e abbiamo potuto dedicare tutte le nostre energie, spesso con profitto, al lavoro e al consolidamento della nostra condizione sociale, culturale, psicologica.
Avere vinto e non essercene neppure accorti, avere superato il Padre e non essere capaci di prenderne atto: potrebbe essere questo il rilievo che un ipotetico “gran giurì” di ragazzi (quelli di adesso) potrebbe muoverci, chiedendoci, infine, di crescere abbastanza da non sentirci più figli, ma definitivamente padri.È possibile che il faticoso, troppo lento ricambio in atto (o la sua precipitosa accelerazione: ma è la stessa cosa) discenda anche dalla nostra prolungatissima e tutto sommato felice, molto felice giovinezza: del dopoguerra noi siamo stati i soli, grandi, veri, fortunati beneficiari, e almeno in questo senso la gratitudine che dobbiamo avere per gli italiani che ci hanno generato è infinita, e questo libro ne è una appassionata testimonianza. Ma poiché l’autore di questo libro è anche e prima di tutto uno dei più importanti leader dell’età repubblicana, viene da pensare che gli sviluppi recenti della politica italiana, specie quelli dentro la grande famiglia della sinistra, abbiano molto a che fare con quell’urgenza di vivere che fu di Vittorio Veltroni e della generazione dei costituenti. Le nuove leve hanno non solo molta voglia, ma anche assoluta necessità, di munirsi di ricordi propri e, eventualmente, sconfitte (e vittorie) proprie. In questo senso i giovani italiani di oggi sono in una condizione esistenziale molto più simile a quella di Vittorio Veltroni che a quella di noi baby boomers.