ROMA – C ‘è la “Roma delle rovine”, il centro, e la “Roma di quaresima”, la periferia. In mezzo, L’Estraneo, protagonista senza nome del romanzo di Tommaso Giagni, che non appartiene a nessuna delle due. Se una città è la tesi e l’altra è l’antitesi, il protagonista non ne è la sintesi: in questo consiste il suo dramma, inscritto nel cerchio tragico del Grande Raccordo Anulare, ma anche metafora di una condizione che trascende i confini del Comune capitolino.
Apolide, L’Estraneo, lo è in tutto. Non è “cittadino” di nessuna delle due città perché è figlio di un “immigrato”. Suo padre, portiere in un palazzo della Roma-bene, viene da uno dei paesini intorno alla Capitale ed ha fatto tappa al Quadraro, prima di migrare nella “Roma delle rovine”:
A fare il portinaio in centro – l’occasione della vita – invece che frustrato è diventato arrogante e noi figli c’ha rovinato. La gran fanfara di quel trasloco maledetto lo ha lasciato con due piatti in mano, da sbattere per festeggiare i soldi in più sul conto e l’invidia dei burini – quando ritorna al paese, ché gli vedono sul cruscotto il permesso per residenti del primo municipio. Le aspettative sono brunite, come l’acqua in cui Goya lasciava stingere il pennello: mamma non ha fatto in tempo ad ambientarsi e tantomeno a “sentirsi signora”, mio padre non s’è goduto più niente dopo il lutto, io e mia sorella dovevamo fare “le conoscenze” e invece io sono venuto introverso e lei è troppo sguaiata anche per fare la mantenuta.
Nella terra di mezzo tra adolescenza e quella maturità che non si può certo certificare con un esame, L’Estraneo ha finito il liceo e deve decidere cosa fare nella vita. Vuole iscriversi all’università, pagarsi gli studi di Storia dell’Arte lavorando e tornare in quella “Roma di Quaresima” dalla quale viene suo padre, una città che sente più “sua”. Sans papier in fuga dalla borghesia, saluta la classe della quale suo padre voleva dargli il passaporto assistendo a una delle scene più riuscite del romanzo: gli “Oscar” del liceo Visconti, una parata all’insegna del darwinismo sociale, in cui i giovani rampolli sgomitano e brigano per emergere, manovrando i vizi e le virtù che hanno appreso dai propri genitori, ovvero dalla classe dirigente della “Roma delle Rovine” e del Paese.
Esule da un mondo chiuso e spietato, arriva in un mondo altrettanto chiuso e spietato. Nel “Quartiere”, una zona mai specificata che rappresenta il “tipo” della periferia romana, abita un’umanità molto più vicina alla borghesia piccola piccola che al sottoproletariato. Dai tempi delle escursioni pasoliniane molto è cambiato. Geograficamente innanzitutto. Le “vere” banlieue sono slittate in un movimento centrifugo lungo le consolari, e la disperazione che prima – fra gli anni 50 e 70 – abitava fra le antiche mura e i primi anelli d’asfalto che circumnavigavano la città, ora vive ai margini e spesso oltre il Grande Raccordo Anulare.
Prima c’erano le baracche di Pietralata, Quarticciolo, Pigneto, Torpignattara, Centocelle, Quadraro. Ora ci sono gli alveari palazzinari di Borgata Fidene, San Basilio, Tor Bella Monaca, Corviale. Dove un Ninetto Davoli non lo trovi più. Di uguale ci sono solo le “vite violente”, la cui molla è la fame e la cui speranza di salvezza è solo l’istinto di sopravvivenza. Sul resto è passato il napalm della civiltà dei consumi e dell’omologazione catodica. Tradotto: i ninettidavoli d’oggi si nascondono nei centri commerciali o si rincoglioniscono davanti alla tv.
Ha lasciato un mondo di “cattivi” non più brutti e sporchi ma palestrati e lampadati. Dove i muri dei palazzi abbandonati dalla sinistra si riempiono di croci celtiche, di un fascismo al tempo stesso qualunquista e ribellista. Ideologia della “legge del più forte” che veste su misura un branco di maschi che pendola fra la palestra e la ricevitoria della Snai. Un branco che quando si avventura nei confini della Roma Ztl lo fa – altro affresco potente – per commemorare il lupo Luciano Liboni ed è costretto a usare il Tom Tom per trovare il Circo Massimo.
Nel nuovo mondo L’Estraneo trova l’amore e l’amicizia, ma non la propria identità. Il sogno di riscrivere la sua storia personale in periferia va a sbattere contro la Sindrome di Stendhal che sorprende il protagonista nella contemplazione della propria inettitudine.
Tommaso Giagni è un esordiente, classe ’85 – come si dice per i calciatori – ma è già un narratore fatto e finito. Sul contrasto apparentemente semplice fra centro e periferia cuce una tragedia che unisce due “tipi” di eroe novecentesco: l’irregolare e l’inetto. Restituendo un reportage antiretorico di quella savana che è Roma, adesso. Facendo intravedere negli squarci del “romanzo di borgata” alla Walter Siti (nume tutelare citato all’inizio del libro) delle possibilità di un “romanzo borghese” alla Alessandro Piperno.
C’è chi è rimasto sorpreso dalla lingua usata da Giagni: quella di una storia narrata in prima persona da un ventenne che alterna un dialetto di borgata a termini come infreddata, brunite, acquaio o marrana. Siccome i libri sono anche un po’ di chi li legge, vogliamo intravederci degli scherzi rivelatori (come i dettagli assurdi nei sogni) di una lingua “estranea” sia all’io narrante che alla terza persona del narratore onnisciente. Del resto, Giagni fa dire subito al protagonista: “Io sono estraneo: sono tutto e sono niente”.