ROMA – Di baby pensionati e baby pensioni in queste settimane si è parlato molto. Un piccolo esercito di circa 500mila persone che costa allo Stato 9,5 miliardi di euro l’anno, milione più milione meno. Un piccolo esercito che certo beneficia di un diritto concesso dallo Stato, la pensione che prendono i baby pensionati non l’hanno mica rubata. Ma, tenendo conto che nella loro vita prendono dalle casse statali circa il triplo di quanto vi hanno versato, si capisce che seppur non essendo rubate le baby pensioni sono certo mal prese. Mal prese perché nessuno può spendere in previdenza il triplo di quello che incassa, non si può stare in pensione una trentina d’anni e forse più a fronte di 15 passati a lavorare, non può essere perché in questo modo qualsiasi sistema pensionistico fallirebbe.
E infatti le baby pensioni sono relativamente poche, un’eccezione in un contesto dove generalmente si passa meno tempo in pensione che al lavoro . E proprio perché mal prese, quando si è parlato di inserire un prelievo, praticamente simbolico, l’1%, su questa categoria di pensioni inizialmente è sembrato che tutti potessero essere d’accordo. Ma non era vero. Qualcuno ritiene ingiusto questo prelievo: la Cgil, il sindacato. Di ipotesi «inaccettabile e impraticabile» parla lo Spi-Cgil che ricorda come si tratti di una misura che «non ha niente di equo» e che colpisce pensionati che hanno assegni molto bassi e che ormai sono molto oltre i 60 anni.
I baby pensionati ricevono in media una pensione lorda di circa 1.500 euro al mese. Cifre in verità di tutto rispetto, considerando che mediamente incassano la pensione per più di 30 anni e avendo versato pochissimi contributi. Il rapporto, come detto, è che si incassa minimo tre volte quanto è stato versato. Dei circa 9,5 miliardi di euro che lo Stato spende per queste pensioni, una grossa fetta riguarda ex lavoratori del pubblico impiego: 7,4 miliardi. Dei 500 mila baby pensionati degli anni settanta, andati in pensione in un’età in cui adesso si è disoccupati o, se va bene, precari, ritiratisi dal lavoro a 30-35 anni e con poco meno di 15 anni di contributi versati, il 65% è concentrato al Nord. Al primo posto c’è la Lombardia con 110.497 baby pensioni e una spesa di 1,7 miliardi. A seguire si trovano Veneto, Emilia Romagna e Piemonte.
Ed esistono poi anche baby pensionati famosi, leggi Antonio Di Pietro, leader dell’Idv, andato in pensione da magistrato a 44 anni (oggi ne ha 60) e che incassa 2.644 euro lordi al mese. E la moglie di Umberto Bossi, quello di Roma ladrona, Manuela Marrone, andata in pensione come insegnante a 39 anni. Tutto regolare ovviamente, la Marrone come Di Pietro e come gli altri 499mila 998, non hanno rubato nulla. Ma non è nemmeno politicamente scorretto riconoscere che una persona che a 39, 44 o 50 anni va in pensione, gode di una forma di privilegio. Privilegio perché più che ad una pensione tale elargizione somiglia ad un vitalizio, privilegio perché è un lusso che la comunità non si sarebbe mai potuta permettere e che oggi pesa ancora di più.
Di eliminare un diritto acquisito, giustamente, non si parla assolutamente. Perché e percome lo Stato abbia introdotto la possibilità che le baby pensioni nascessero non è il tema qui in questione ma, francamente, chiedere a questa categoria un contributo dell’1%, che porterebbe nelle casse statali appena qualche decina di milioni di euro, non sembra che «non abbia niente di equo» come dice la Cgil. Che il sindacato difenda i diritti acquisiti e le pensioni è una sorta di riflesso condizionato della categoria, ma sarebbe carino ogni tanto riconoscere che esistono anche diritti, e pensioni, come in questo caso, malprese. Il prelievo dell’1% sarebbe una cosa poco più che simbolica, il suo valore sarebbe certo più d’immagine che di sostanza e il sindacato dovrebbe imparare, per tentare di stare al passo con i tempi, anche di aiutare i futuri lavoratori e non solo i già pensionati.
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