NEW YORK – La borsa di Wall Street, quella dove si consumano buona parte delle decisioni economiche del nostro pianeta, ha letteralmente cacciato un centinaio di società cinesi. Espulse dal suo listino e da quello del Nasdaq. Buttate fuori perché baravano, quotandosi in Borsa senza produrre praticamente nulla e truccando conti e bilanci. Una vicenda cominciata qualche anno fa, quando i risparmiatori americani erano ansiosi di investire nella locomotiva cinese tanto quanto i cinesi erano ansiosi di accedere ai capitali a stelle e strisce.
Washington controllò, evidentemente, poco e male chi e cosa accedeva al suo mercato finanziario, e Pechino si lanciò nell’avventura in modo spesso corsaro. Come risultato molti americani piccoli-piccoli hanno perso migliaia di dollari, miliardi di dollari in totale andati in fumo, le aziende cinesi sono state espulse, le autorità di Pechino nonostante le sollecitazioni non hanno collaborato e la Borsa di Wall Street, persa la cosa più importante cioè i soldi, cerca di salvare almeno la faccia.
Da quando Totò vendeva la fontana di Trevi, o forse anche da prima, gli americani sono, nell’immaginario collettivo, un popolo con enormi potenzialità e qualità, ma anche un popolo di ricchi creduloni. Lo sappiamo da tempo noi italiani che su questo aspetto della loro natura abbiamo talvolta lucrato e spesso scherzato. Ma ultimamente lo devono aver scoperto anche i cinesi. Verso la fine del decennio scorso infatti, esattamente quando molti investitori americani volevano fare profitti sfruttando il boom economico cinese, e le imprese della Repubblica Popolare erano felici di recuperare capitali che le aiutassero a crescere, alcuni, certamente non tutti, hanno pensato di vendere oltreoceano non la Grande Muraglia al posto della fontana del Bernini, ma delle fabbriche di cartone.
La voglia americana di salire a bordo dell’economia più in crescita del pianeta era tale che l’ingresso a Wall Street e sul Nasdaq fu spesso facilitato da concessioni che l’acceleravano e ne accorciavano la procedura. Il meccanismo, il trucco più utilizzato per piazzare sul mercato aziende di cartapesta, era quello della “reverse merger”, ossia la fusione con una compagnia dormiente, già registrata presso la Sec. In altre parole le aziende cinesi che avevano voglia di essere quotate il prima possibile, come quelle che volevano evitare eccessivi controlli, entravano in borsa prendendo il posto di aziende americane già dentro ma praticamente dismesse. Questo evitava quindi alle aziende di Pechino tutta una serie di ostacoli burocratici, aprendo in fretta la porta dello Stock Exchange, ma chiudendo anche un occhio e mezzo su cosa andava ad entrare nel mercato azionario americano.
Creduloni sì, ma sino ad un certo punto. Gli americani dopo qualche anno, e dopo che diversi piccoli e grandi investitori avevano pompato miliardi di dollari, hanno cominciato ad accorgersi che la Cina non sempre rendeva come sperato. Per esempio si è scoperto che la Puda Coal, una compagnia mineraria della Cina rurale, aveva venduto tutti i suoi centri per l’estrazione del carbone senza dire nulla ai propri azionisti. In altre parole, era diventata un contenitore vuoto. Le contrattazioni sui suoi titoli erano state sospese, e chiunque ci aveva scommesso su aveva perso tutto. Oppure che la China Integrated Energy, una grande impresa che in teoria doveva produrre 100.000 tonnellate di biodiesel l’anno, aveva in realtà un volume d’affari, nella sua fabbrica di Tongchuan, trasportabile su 18 camion, contando sia quelli in entrata che in uscita. In altre parole gli americani hanno scoperto che, come con Totò, si erano comprati il nulla., fregati praticamente col gioco delle tre carte. E non l’hanno ovviamente presa bene.
Le autorità si sono così messe in moto nel tentativo di risalire ai responsabili e, soprattutto, di recuperare qualche dollaro americano. La presidentessa uscente della Securities and Exchange Commission, Mary Schapiro, per oltre sei mesi ha cercato di convincere le autorità di Pechino a collaborare con la sua inchiesta, e recuperare almeno in parte le perdite. Nel luglio scorso è andata a Pechino per chiedere chiarimenti su una quarantina di casi e ha incontrato il vice premier Wang Qishan, ma è stato un buco nell’acqua. Così, a dicembre, quando il suo mandato è scaduto, ha deciso di passare all’azione e un centinaio di compagnie della Repubblica Popolare sono state cancellate dai listini.
Preso atto che non c’era possibilità di recuperare i soldi persi la Shapiro ha preteso, o tentato, di salvare almeno la faccia. La fontana l’abbiamo comprata sì, ma almeno non vantiamocene.
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