ROMA – Il 6 maggio andranno alle urne oltre 60 milioni di europei. Si voterà per il ballottaggio delle presidenziali in Francia, si andrà alle urne in Grecia per rinnovare il Parlamento e in uno dei più importanti Land tedeschi: il Nord–Reno–Westfalia, 18 milioni di abitanti e 125 miliardi di debito. Ma si voterà anche in Serbia, politiche, presidenziali e amministrative in un sol giorno; e in diversi comuni italiani. Sullo sfondo, la crisi politica olandese dove il premier si è appena dimesso. Sarà, quasi certamente, un giorno storico per l’Europa il prossimo 6 maggio, ma se nel bene o nel male ancora non è dato saperlo.
Poco meno di due secoli fa, un altro giorno di maggio, il 5, è entrato di diritto nei calendari della storia europea, quel giorno moriva Napoleone. “Ei fu”, scrisse in memorabili versi Alessandro Manzoni. Dopo questa domenica di voto però, quell’epitaffio, rischia di divenire applicabile alla nostra tanto amata/odiata moneta unica. Appare scontato infatti, a prescindere da come vada nei vari paesi, che dopo questa tornata elettorale qualcosa dovrà cambiare. La linea della sola austerità, del rigore, del rientro dal deficit e dei conti a posto non basta più. Incerti i suoi risultati sui mercati e ingestibili i suoi costi nell’elettorato. Insomma, comunque andrà, qualcosa di nuovo nell’economia europea dovrà avvenire. Si concederà più spazio alla crescita o alle politiche sociali, si cercherà di dare stimolo all’economia tentando di dare risposte agli elettorati ormai stanchi di troppo rigore ma anche di seguire i consigli degli Stati Uniti e, da ultima, anche della Bce.
Ma se cambiamento ci sarà, come pare certo, non è detto che sia un cambiamento buono. Per semplificare è come se l’Europa si trovasse ad un bivio, costretta quindi a cambiare strada ma senza sapere dove andrà, se sulla via “buona” della ripresa o quella “cattiva” del default. Le conseguenze infatti di un cambio, o di una sostanziale correzione di rotta delle politica economica europea, sono tutt’altro che chiare.
Il candidato socialista francese Francois Hollande, dato per favorito nel ballottaggio del prossimo 6 maggio, ha detto a chiare lettere di avere un obiettivo preciso: rinegoziare il patto fiscale (il fiscal compact) fortemente voluto dalla Germania, appena sottoscritto da 25 stati europei. Ma anche se vincesse Sarkozy, ad ascoltare i suoi ultimi comizi a caccia di voti lepenisti, il futuro non sembra assai diverso: “Ora basta, cambiamo o non ci sarà più l’Europa”.
In Grecia, i due partiti principali che sostengono l’attuale esecutivo, e che soprattutto sposano la linea di risanamento imposta dalla Troika, perdono pezzi e voti, con le opposizioni di destra e sinistra in continua crescita. Se anche quindi l’attuale maggioranza di governo, e con lei la politica “europeista” dovessero essere confermate, qualche concessione all’opposizione e alla non austerity andrà fatta anche ad Atene.
Persino la cancelliera Angela Merkel non può dormire sonni tranquilli. Nelle prossime elezioni regionali si prevede infatti una sconfitta non tanto della sua Cdu ma della sua coalizione. I liberali, suoi alleati di governo, secondo i sondaggi rischiano persino di non superare la soglia del 5%, soglia minima in Germania per entrare in Parlamento. Nel Nord Reno–Westfalia poi rischia di vincere la governatrice uscente, Spd, che nel Land da lei amministrato non ha certo condotto una politica di austerità, portando il debito a ben 125 miliardi di euro. Gli elettori tedeschi però sembrano intenzionati a riconfermarla, giudicando quindi il debito di secondaria importanza rispetto agli investimenti fatti.
E poi l’Italia, dove il montismo sta lasciando di nuovo il passo ai partiti. In questo momento Mario Monti sembra essere l’uomo adatto a fare da mediatore e punto d’unione tra una Francia presumibilmente desiderosa di aperture e una Germania comunque più chiusa rispetto alla sua vicina. Ma a parte questo sembra comunque avviarsi a conclusione l’esperienza del governo tecnico. Anche se tra scandali tali da far quasi rimpiangere i tempi di Tangentopoli i partiti, o i non partiti come alcuni sono, stanno riappropriandosi del loro ruolo. Aiutati, anche nel bel paese, dall’austerità imposta da Monti. Austerità indispensabile qualche mese fa, ma che ora comincia a non essere digeribile senza qualche misura di sostegno.
Infine la Serbia, che dell’Europa unita ancora non fa parte ma che, almeno sino a poco tempo fa, bramava di entrarvi. Tanto che l’ex premier Boris Tadic, dopo aver incassato per il suo paese lo status di “paese candidato” all’Ue il 1 marzo, si era dimesso il 4 aprile convinto di stravincere alle successive elezioni. In questi mesi però qualcosa è cambiato e ora i sondaggi dicono che non solo rischia di non stravincere, ma corre persino il rischio di perdere superato dai populisti del partito progressista di Tomislav Nikolic, meno “affidabile” per l’Europa.
Domenica 6 maggio 2012 sarà quindi certamente una data importante, se non uno spartiacque nella storia dell’Unione Europea, se sarà un nuovo inizio o un punto d’accelerazione verso la fine lo sapremo però solo tra qualche anno.
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