ROMA – Quello italiano “è un mondo del lavoro basato sull’apartheid” ha detto senza mezzi termini il premier Matteo Renzi di fronte al Parlamento. E, numeri alla mano, difficile è dargli torto: su oltre 22milioni di lavoratori, meno della metà godono infatti di tutte le tutele, compresa quella dell’articolo 18. Una disparità di trattamenti figlia della moltitudine di regole che oggi caratterizza il mondo del lavoro e una disparità che, al netto delle simpatie o delle antipatie nei confronti del presidente del Consiglio, penalizza milioni di lavoratori rispetto ad altri.
Non vuole essere e non è questa la sede per riprodurre l’antico e mai logoro dibattito secondo cui le tutele vanno estese a tutti senza se e senza ma, o se al contrario in cambio di tutele non solo per i garantiti si possa rinunciare a qualcosa. E’ invece interessante vedere come quella che Renzi ha definito e sintetizzato nel termine “apartheid” si traduce nella realtà dei lavoratori italiani.
“Su 22.446.000 lavoratori – riporta Paolo Baroni su La Stampa -, tanti ne stimava a fine luglio il rapporto trimestrale dell’Istat, i ‘garantiti’, quelli che stanno in ‘serie A’ insomma, sono meno della metà. Tra lavoratori a tempo pieno e lavoratori a tempo parziale parliamo di 14,56 milioni di lavoratori (di cui 11,98 milioni a tempo pieno). Ma di questi almeno 4 milioni e 108mila, il 34,52% dei lavoratori full time, lavora in imprese con meno di 15 dipendenti e quindi come tali vanno classificati di B perché non beneficiano delle tutele legate all’art. 18. Immaginando una quota analoga anche tra i part-time alla fine in prima classe ne restano ‘appena’ 9 milioni e 491mila. Tutto il resto è seconda classe, effetto ‘apartheid’, come lo chiama Renzi. Serie B, se non peggio. Dai 3 milioni e 144mila disoccupati (compresi gli 891mila giovani) ai 3,5 milioni di inattivi (su un totale di 14,3) che vorrebbero/potrebbero anche lavorare ma non trovano o non cercano più”.
E proprio questa mattina, all’indomani del discorso al Parlamento di Renzi, in commissione lavoro al Senato è stato approvato un emendamento al Jobs Act che introduce il contratto di lavoro a tutele crescenti. Tutele che crescono cioè parallelamente all’anzianità di servizio.
Una modifica al Jobs act e in particolare all’articolo 4 della delega sul mercato del lavoro che apre di fatto la strada al superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che disciplina i licenziamenti senza giusta causa. Nel testo riformulato c’è la “previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio”, si legge.
Articolo 18 che, nonostante la riforma fatta dal governo Monti, resta lo spartiacque. “La natura del contratto e le condizioni di accesso al posto di lavoro determinano la prima frattura. Certo, poi c’è l’articolo 18 che segna un ulteriore spartiacque – spiega ancora Baroni -. Interessa infatti appena il 3% delle imprese, 156.500 su un totale di 5,25 milioni, eppure tutela il 65,5% dei dipendenti. Dunque 9,5 milioni su 22,4 sono a tutti gli effetti i garantiti, e tutti gli altri? Innanzitutto ci sono 2,364 milioni di contratti a termine (e tra questi 699mila rapporti part time). Poi vanno considerati i lavoratori indipendenti, le partite Iva, ma anche commercianti e artigiani: in tutto sono 5 milioni e 518mila, di cui 836mila hanno una occupazione a tempo parziale. Per capirci, sono così tanto di ‘serie B’ che loro il bonus da 80 euro ovviamente ancora se lo sognano. Infine ci sono 394mila perone classificate come collaboratori, i cococo di una volta ora diventati cocopro. In molti casi contratti che dovrebbero essere a tempo indeterminato camuffati da finti contratti di collaborazione. Ma se guardiamo trattamenti economici e condizioni, da Nord a Sud e tra uomo e donna si creano ovviamente altre classi e sottoclassi, con una possibilità infinita di combinazioni”.
Ed è ancora Renzi a ribadire, nella sua visita odierna alla redazione de La Stampa, la volontà del governo di procedere nella direzione indicata nel discorso parlamentare. “È lì che vogliamo andare”, dice spiegando cosa poi significhi concretamente smetterla di dividere i lavoratori di serie A e di serie B. “Dobbiamo dare regole che siano sostanzialmente uguali per tutti. Oggi non tutte le lavoratrici hanno la maternità. Dobbiamo garantirla anche a chi ha la partita Iva o a chi non è coperto dalle casse della categorie”.
E, ovviamente, superare “l’articolo 18” significa prendersi cura del lavoratore nel momento in cui esce dal mercato del lavoro. “Il concetto di fondo è che noi dobbiamo liberare la possibilità di assumere e, per chi non ce la fa, non avere le rigidità che ha avuto il mercato del lavoro fino a oggi”.
“Che tu abbia lavorato in una azienda che abbia più di quindici dipendenti o meno, devi avere le stesse garanzie. Per un anno puoi fare un corso di formazione o un investimento su di te. Non c’è solo un indennizzo, ma è lo Stato che ti accompagna per un periodo”. Che costerebbe allo Stato tra 1,5 e due miliardi.