ROMA – Non si è dovuta attendere la crisi del settimo anno. Per vedere finire l’amore tra la sinistra e il governo Monti sono bastati 4 mesi. Centoventi giorni in cui la fiamma è andata piano piano spegnendosi sino a ieri (21 marzo), quando la presa di posizione dell’esecutivo sulla riforma del mercato del lavoro, ha portato i due ad un passo dal divorzio. Faranno pace? Forse, anche se conoscendo la natura “autolesionista” della sinistra italiana è lecito temere che sarà separazione lunga e piena di strazi.
Era una sera di novembre… quando il popolo della sinistra, per una volta compatto e unito con i suoi leader, si era ritrovato in piazza per festeggiare, finalmente, la caduta di Berlusconi e, contestualmente, l’arrivo del professore alla guida del Paese. Davanti al Quirinale e a palazzo Grazioli cori, petardi, balli, gioia incontenibile e Bella Ciao. Sulle agenzie di stampa le parole dei vari esponenti politici della sinistra: “oggi è una giornata di liberazione per l’Italia, è un battesimo per il Pd”, disse Bersani. E con il segretario Pd festeggiavano anche Rosy Bindi, Oliviero Diliberto e Antonio Di Pietro. Oggi Bersani si fa sentire a Montecitorio mentre privatamente ma non troppo mormora: “Se devo finire monetizzando il lavoro, non finirò così, non so come faremo ma dobbiamo fare passi avanti”. Insomma il segretario del Pd fa sapere che non vuol “morire montiano”. E il capogruppo alla Camera, Dario Franceschini chiede un disegno di legge lento e non un decreto legge veloce. E Rosy Bindi sillaba :”Non è il nostro governo”. E Di Pietro, seppur Di Pietro è a tutto titolo sinistra, promette “Vietnam parlamentare” alla riforma Monti-Fornero.
Certo era novembre e in molti festeggiavano per le dimissioni del Cavaliere più che per l’arrivo di Mario Monti ma il Pd, che aveva già dato ampie garanzie in tal senso, festeggiava anche per il nuovo esecutivo che avrebbe potuto contare sul suo appoggio parlamentare. In fondo poi, anche molti di quelli che esultavano per le dimissioni del Cavaliere, vedevano in Monti il salvatore della patria. Sentimento più o meno espresso a parole ma ampiamente diffuso nelle coscienze.
Festeggiava ancora la sinistra, anche se in tono minore, dopo le prime misure adottate dal nuovo esecutivo. Misure dure si disse, ma che “stanno salvando il Paese”. L’idillio però cominciava già ad incrinarsi, come i sondaggi del Tg di Mentana rivelavano settimana dopo settimana: un’ipotetica opposizione di sinistra a Monti data al 15% prima, poi al 20 e ora quasi al 26%. Ma sulla questione lavoro l’amore è finito. Aveva retto alle tasse, aveva retto anche ai fantomatici F35 acquistati dalla difesa ma sul lavoro non ce l’ha fatta. E’ stato troppo. Il pulcino della sinistra di opposizione che si intuiva nei sondaggi ha rotto il guscio.
“Non erano questi i patti” denuncia Bersani, “è una riforma non equilibrata” gli fa eco la Bindi a Ballarò. Ora non solo i sondaggi registrano i malumori dell’elettorato di sinistra nei confronti dell’esecutivo, anche i suoi leader ne prendono atto e anzi lo rilanciano.
Forse di questa fantomatica riforma non si farà nulla, l’iter parlamentare è infatti lungo e tortuoso, ma il modus e le proposte del governo Monti non sono andate giù alla sinistra. Sinistra che come spesso ha fatto nel nostro Paese, sta però infilandosi in vicolo cieco, in una posizione comunque perdente: se Monti e il suo governo riusciranno a riformare l’Italia, aver preso da loro le distanze si tradurrà in un regalo alla destra seria (che ancora non esiste ma che non è escluso possa prima o poi nascere); se invece Monti fallirà, la sinistra sarà comunque colpevole di averlo voluto e sostenuto. La classica posizione “tafazziana” a cui la sinistra ci ha fin troppo spesso abituato.
La fine di questo amore rivela anche, tra le sue pieghe, la leggerezza del pensiero della sinistra. Ci si accorge ora che per salvare l’Italia dalla crisi, anzi dalla bancarotta, si deve pagare un costo. Una forza talmente grande da essere stata in grado di scalzare il Cavaliere dopo vent’anni, dopo che aveva resistito ad inchieste per mafia, corruzione, prostituzione e quant’altro, dopo che aveva resistito a sconfitte elettorali e rotture politiche, la sinistra credeva che per sanare una situazione talmente grave bastasse salutare Berlusconi e poi continuare con le stesse pensioni, le stesse tasse e tutti amici come prima? Scopre solo ora che per evitare la bancarotta l’Italia come la conoscevamo non può più essere? Dire che sono stati poco lungimiranti appare riduttivo.
Ultimo ma non ultimo poi, poco ha a che fare in realtà con la storia d’amore che va finendo, la questione mercato del lavoro che la relazione ha minato. Ma siamo sicuri che il popolo della sinistra sia contrario? Certo, pensionati ed operai contrattualizzati sono assolutamente contrari. Ma tutti quelli che sono precari, tutti quelli che hanno più o meno trent’anni e un contratto vero se lo sognano, è difficile sostenere che siano contrari. Assunzione automatica dopo 3 anni di formazione o apprendistato che dir si voglia suona per queste categorie come musica e “chi se ne frega” dell’articolo 18. Giusto o sbagliato che sia, precari e trentenni di oggi, l’articolo 18 mai lo conosceranno, nemmeno se rimanesse immutato nei secoli. I sindacati, soprattutto la Cgil, questo non lo capiscono. Ed è in qualche misura normale visto che sono associazioni di lavoratori. Un partito politico però, un grande partito, lo dovrebbe capire.