ROMA – La prima cosa da fare è “rimuovere gli ostacoli allo sviluppo, fare riforme strutturali che eliminino i privilegi e le rendite presenti praticamente in tutte le categorie sociali”. Bisogna partire da questo, dall’eliminazione dei privilegi, secondo il premier in pectore Mario Monti. Questo per riuscire ad avere una “maggiore crescita”, anche se all’Italia ora come ora basterebbe crescere e basta, e per “consolidare e risanare la finanza pubblica”. Alla viglia dell’incarico è questa l’anima del programma di Mario Monti. Vasto programma, come “vasto programma…” rispose un tempo Charles De Gaulle a chi chiedeva di eliminare “almeno” gli sciocchi e gli incompetenti. Vastissimo programma quello di eliminare i privilegi, soprattutto se si rompe il tabù che quasi mai la politica italiana pronuncia: “presenti praticamente in tutte le categorie”.
Anche Mario Draghi aveva parlato di un Paese storicamente bloccato, prigioniero, di “robuste coalizioni distributive”, come ricorda Guido Gentili sul Sole 24 Ore. Corporazioni e privilegi che riguardano tutte le categorie sociali, pensionati compresi. Pensioni che, insieme alla sanità, esplodono negli anni settanta ed ottanta senza alcun rispetto degli equilibri finanziari futuri.
Tra il 1964 ed il 1972 la crescita della spesa pubblica rispetto al Prodotto interno lordo passa dal 27% al 37% e dal 1969 le entrate non riescono più a seguire le spese. Tra il 1970, anno in cui nascono le Regioni, e il 1990, la spesa statale arriva al 53% del Pil e il welfare “all’italiana” allarga il suo perimetro distribuendo risorse a cittadini ed imprese senza creare né vero sviluppo né vera solidarietà. Uno dei più citati parametri europei di Maastricht (1992), quello che stabilisce il limite del 60% nel rapporto tra debito pubblico e Pil, l’Italia lo aveva già raggiunto nel 1982, per poi sfondarlo e doppiarlo nel decennio successivo.
L’Italia, la nostra economia, ma meglio sarebbe dire la nostra società, è appesantita dalla somma di tutti quei privilegi, nominati da Monti, elargiti e concessi a favore delle robuste coalizioni distributive evocate da Draghi. L’Italia non cresce da quindici anni, il mezzogiorno, povero di investimenti utili, è a rischio tsunami demografico, la pressione fiscale su lavoro e imprese è altissima, le liberalizzazioni e le privatizzazioni sono al palo, resiste una diffusa cultura antagonista al mercato e alla concorrenza che attraversa tutti gli schieramenti politici. Cultura che deve inevitabilmente essere modificata.
Questa realtà che va eliminata ha prodotto ed ha portato, insieme anche a fattori esogeni è vero, all’attuale crisi senza precedenti che il nostro Paese sta attraversando. Una crisi talmente grande da porre, forse, fine al berlusconismo dopo poco meno di 20 anni, così enorme che non è scontato che l’Italia ce la faccia e ne esca senza passare per il default, e se ci riuscirà lo farà solo attraverso notevoli sacrifici. Crisi che questa settimana – mercoledì 8 – ha portato a quell’inversione del credito di cui si è parlato, cioè quando i titoli a breve rendono più di quelli a lungo termine, che può significare, di fatto, crisi di liquidità per il nostro Paese.
Qui la speculazione non c’entra, è invece la dimostrazione che, se la Bce non interviene, non ci sono compratori per il debito pubblico italiano. E questa si chiama appunto crisi di liquidità: lo Stato ha sempre maggiori difficoltà a finanziarsi sul mercato ed è costretto a pagare tassi crescenti, che riducono la sostenibilità del debito, rendendo più probabile una ristrutturazione, e aumentando così il rischio per gli investitori. L’aumento del rischio innalza il margine di garanzia richiesto per finanziare le posizioni in titoli di Stato, rendendo il costo dell’investimento proibitivo. Un circolo vizioso che in breve tempo porta all’espulsione dello Stato dal mercato dei capitali.
A questo punto, come descrive Alessandro Penati su Repubblica, anche se il gettito fiscale bastasse a coprire le spese, la crisi di liquidità diventerebbe di insolvenza perché bisognerebbe comunque pagare gli interessi sul debito esistente e rinnovare quello in scadenza (quasi 300 miliardi l’anno prossimo). Tagliata fuori dal mercato, l’Italia sarebbe costretta a ricorrere all’aiuto dell’Europa e degli organismi internazionali, condizionato però a misure di austerità e a un piano di ristrutturazione del debito; oppure a dichiarare default unilateralmente, e uscire dall’euro.
Ma come si può evitare l’insolvenza e, quantomeno tentare, di risalire la china della crisi? Solo cambiando radicalmente il nostro Paese, eliminando i privilegi indicati da Monti. Come spiega ancora Penati, ci sarebbero alcuni punti da seguire:
Primo: capire che si passa dalla crisi di liquidità all’insolvenza in pochi mesi; perché l’aiuto della Bce può essere efficace solo se è temporaneo.
Secondo: basta con le favole tranquillizzanti alla Tremonti, gli appelli populistici a “sottoscrivere i Btp per la Patria,” o le fantasie di una “soluzione finale” per il debito, con impraticabili prestiti forzosi o patrimoniali; ma spiegare con chiarezza che un’economia stagnante e una spesa corrente (al netto degli interessi) che da 15 anni cresce più rapidamente del Pil sono incompatibili con la nostra permanenza nell’euro.
Terzo: prendere i 39 punti della lettera dell’Europa, le tante proposte di riforma già scritte (nelle Considerazioni Finali della Banca d’Italia, quelle a “costo zero” di Boeri e Garibaldi, e altre ancora), trascriverle in leggi e decreti così come sono e approvarle.
Quarto: approvarle subito.
Quinto, l’adozione delle misure richieste è condizione necessaria per uscire dalla crisi, ma non sufficiente. Ci vuole tempo per recuperare la credibilità e far tornare gli investitori internazionali a comperare spontaneamente il nostro debito, invece di quello tedesco (solo così si riduce lo spread). Lo dimostra l’Irlanda che ha subito tagliato drasticamente la spesa pubblica corrente, e agito dal lato dell’offerta mantenendo le imposte societarie basse per attirare gli investimenti diretti dall’estero (nel primo semestre, più di Germania e Francia assieme), strumentali a rilanciare le esportazioni, e trainare l’economia. Così, ha ridotto il rendimento del suo decennale dal picco del 14% all’odierno 8%. Ma ancora troppo per essere sostenibile: il ricorso al mercato dei capitali le è ancora precluso e deve fare affidamento sui fondi ufficiali del piano di salvataggio. Come pure le banche irlandesi, che hanno nella Bce l’unica fonte di finanziamento.
In altre parole fare esattamente tutto quello che si è evitato di fare negli ultimi 20 anni almeno.
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