Beppe Grillo se ne faccia una ragione: moriremo democristiani

Beppe Grillo se ne faccia una ragione: moriremo democristiani
Beppe Grillo al seggio (foto Ansa)

ROMA – Beppe Grillo ci aiuterà a morire serenamente democristiani. Gianroberto Casaleggio, il suo guru, farebbe bene a ripassare la storia. Scoprirebbe che la “questione morale” di Enrico Berlinguer non portò il partito alla vittoria. L’Italia non voleva avventure ieri, e non le vuole oggi. Tutte le volte c’era aria di sorpasso del Pci sulla Dc, i comunisti dovevano rinfoderare le ambizioni. E’ accaduto anche in queste elezioni per il M5S. Non c’è stata trippa per gatti. Peggio. Se non riusciva Berlinguer, con la sua signorilità e il suo stile sobrio, a smuovere l’Italia moderata, come poteva pensare di farlo il duo Grillo-Casaleggio con un linguaggio da squadraccia comico-fascista?

La “questione morale” da sola non va da nessuna parte, se non c’è una proposta politica solida a sostenerla. Berlinguer aveva portato il Pci a ridosso della Dc, aveva trattato con Aldo Moro il compromesso storico e poi era stato durissimo sul patto fra Arnaldo Forlani e Bettino Craxi. Il sorpasso del Pci avvenne alle Europee, dopo la sua drammatica morte a Padova nel giugno del 1984, ma fu un omaggio al suo ricordo, alla sua figura. Dopo di lui, cominciò il declino del Pci, spianato poi nel 1989 dalle macerie del Muro di Berlino.

Ma il duo Grillo-Casaleggio ha fatto anche l’errore di pensare che il marchio Berlinguer potesse essere speso contro il Pd e come specchietto per i nostalgici. Non ha calcolato che gli elettori che oggi hanno 30 anni non sanno neanche chi fosse Berlinguer. Al massimo conoscono sua figlia Bianca direttora del Tg3.

Ma forse l’errore che più spiega il tonfo dei grillini si annida nella loro poca conoscenza del Paese, nella loro scarsa memoria. Solo un comico può pensare di fare una campagna minacciosa come un siparietto da cabaret. Liste di proscrizione, manette esibite, minaccia di rastrellamenti casa per casa, gogna e processi, che manco il peggior giacobinismo. Il presidente della Repubblica in ceppi, i banchieri appesi per i piedi, e chi più ne ha più ne metta. E poi, l’idea di una vittoria grillina senza ritorno, l’incubo di un regime governato da un giudice unico e supremo. Grillo non è un dittatore, più inquietante è il suo socio. Ma c’è un linguaggio che va bene negli studi di Crozza, non nei luoghi istituzionali per quanto sputtanati.

E poi c’è la questione vera. L’Italia, prima con Enrico Letta e poi con Matteo Renzi, comincia a respirare aria democristiana. Il Pd è un partito a trazione democristiana, dove la sinistra ex-comunista o si adegua e vince o rompe e perde. Renzi non è il moderatismo farlocco di Silvio Berlusconi e non è il pensiero meridiano dei Giovani turchi che distilla nuovismo e rimane fermo al vecchio. La politica “del fare” l’avevano inventata i padri fondatori del partito cattolico, altro che Forza Italia.

Quel partito cattolico aveva cercato intese istituzionali e sociali con i comunisti di Palmiro Togliatti e poi di Berlinguer, ma non si era fatta intimidire né dai terroristi fascisti né dalle brigate rosse. Quella Dc era rassicurante, Balena bianca ma assai materna, anche quando era al centro di scandali come la Lockheed o i petroli. E a Grillo non sono serviti i “regali” degli ultimi giorni di campagna, come l’inchiesta Expo, il terremoto Carige, l’affare Genovese, tanto per citarne qualcuno.

Il Pd sopra il 40 per cento è il ritorno della Dc, la promessa di riforme, qualche segnale “clientelare” negli 80 euro, l’attivismo di Renzi e un parlamento che legifera. Il sindaco fiorentino corre come un ossesso, perché deve convincere anche i suoi compagni di strada che il tempo dell’avventurismo parolaio è finito. Grillo e Berlusconi sono out e avranno bisogno di tempo per riprendersi. Il tempo che serve a ricostruire un bel paesone democristiano, in patria e in Europa, dove la Dc sapeva farsi valere. Il lavoro non è finito, è appena incominciato.

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