Dopo l’Enciclica di Lampedusa in difesa dei disperati nordafricani, Papa Francesco ha replicato in Brasile il suo inconfondibile stile: non spaventarsi di nulla, affrontare il pericolo con la certezza di avere l’Onnipotente dalla propria parte.
Sono sembrati buffi e intimiditi i giornalisti che l’hanno interrogato sui lati “oscuri” della Chiesa: lo Ior, le lobby, i gay, i divorziati… Francesco aveva una risposta per tutti, e il principio di partenza era chiaro: io non giudico, io non sono Dio, sono il suo Vicario.
Non ha perso tempo a discettare, s’è comportato come un organizzatore che ha in testa un disegno preciso e che lo esegue senza imbarazzi, pur consapevole delle difficoltà. La faccenda che ha più colpito i media è quella dei gay. La domanda voleva essere imbarazzante, mirava a incasellare “a destra” o “a sinistra” il vescovo di Roma. Dopo la faccenda della “lobby gay in Vaticano“, da lui stesso denunciata, avremmo finalmente saputo se la Chiesa considera gli omosessuali destinati all’Inferno già in questa terra, oppure se….
Francesco è stato abile come un gesuita e paziente come un francescano: il problema sono le lobby, ha spiegato, non i gay, perché la Chiesa accoglie anche loro e non li discrimina. Un brutto colpo, per quei cristiani che un giorno sì e l’altro pure li discriminano eccome. Un segnale a tutti quelli che tutti i giorni insegnano al Papa come si fa il Papa.
Anche la faccenda della laicità dello Stato non è stata male come spettacolo. Francesco ha spiegato che uno Stato dev’essere laico per garantire tutti i suoi cittadini, qualsiasi religione essi pratichino. Ma come, il Papa invoca lo Stato laico contro il quale molti dei suo predecessori si sono battuti? Ebbene sì. E non perché Jorge Maria Bergoglio sia un mazziniano in ritardo, ma perché sa che le religioni possono dialogare fra di loro se hanno un terreno comune e comuni garanzie. Questo Papa è infatti convinto, da buon gesuita, che il terreno del dialogo e dell’integrazione interreligiosi siano una garanzia di civiltà nei comportamenti dei popoli.
Lo diceva già alla fine del ‘500 Matteo Ricci, il grande gesuita che dedicò la sua vita alla missione in Cina. Ricci entrò in conflitto col Vaticano per aver difeso le pratiche degli antenati, tipiche del Confucianesimo, ritenendole non in contrasto con il cattolicesimo.
Ecco, Bergoglio rilancia l’idea della “missione” e della “contaminazione”. Scelta anche obbligata, se vogliamo, in Sudamerica dove le sette cristiane stanno erodendo spazi di consenso alla Chiesa cattolica. Il Papa invita a mescolarsi con gli altri, a pregare Dio insieme e a trovare quell’unità dei popoli necessaria per condurre battaglie morali e sociali.
L’America Latina in questo momento è piena di fermenti e di inquietudine, lo si è visto chiaro anche nei giorni della visita del Papa. Il clima di piazza non era rassicurante, ma Francesco non ha fatto una piega, non perché pensi di essere immortale, ma perché crede in una religione “tangibile” che muova uomini in carne e ossa. Anche papa Wojtyla aveva una visione profetica e missionaria, anche lui era una specie di carrarmato, ma non aveva la finezza del gesuita Bergoglio. Anche lui veniva da un “continente disperato”, quale il cadente impero comunista, ma era comunque un europeo, sia pure di rottura.
Francesco viene dalla “fine del mondo” e, come Matteo Ricci in Cina, non ha paura di mescolarsi e di contaminarsi con il mondo.