Il messaggio di fine anno di Beppe Grillo annunciava sfracelli: in primis l’impeachment contro il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Non è detto che il leader del M5S non ci provi, ma sarebbe un gesto disperato, il segno della crisi che sta erodendo la democrazia del web, fiume impetuoso che non fertilizza la campagna della politica, la sommerge e la fa marcire. Lui il Capo, nega naturalmente che di questo si tratti. Ma i segni che arrivano dai territori sono quelli che sono.
Il caso della Sardegna è emblematico. La politica della rete non riesce a partorire una classe dirigente, ma un guazzabuglio di tutti contro tutti, al punto che le fazioni grilline non trovano uno straccio di accordo sulla lista per le elezioni regionali. Beppe sbraita e inveisce, ma si rende conto che la democrazia diretta gli è sfuggita di mano. Altro non riesce a scegliere che di non scegliere. Lista A o lista B? Nessuna lista, prego. Tutti a casa, cioè tutti liberi.
La decisione ha naturalmente ringalluzzito gli avversari del Movimento, ognuno pensando in cuor suo che, meno concorrenti, vuol dire più voti per chi rimane in lizza. Il più soddisfatto può essere il Pd che, costretto cambiare cavallo all’ultimo momento, temeva strascichi “populisti” che certo avrebbero favorito il grillismo. Soddisfatti anche gli altri, naturalmente, a cominciare dal centro destra lacerato al suo interno, per finire alle liste autonomiste per le quali ogni pugno di voti è prezioso.
Ha scritto qualche commentatore che Grillo sceglie l’Europa e l’Italia come campo di sfida e lascia i territori alle sue miserie periferiche. Il comico genovese, cioè, manterrebbe alta l’asticella delle ambizioni, per non impiastricciarsi le mani nelle farine appiccicose degli enti locali. Può darsi che sia una scelta strategica intelligente per l’uomo solo al comando (con Gianroberto Casaleggio), ma sarebbe anche la negazione della democrazia dal basso, cioè di una classe dirigente che si autogenera attraverso la rete.
Un passo indietro pericoloso per un partito che si contende il primato dei voti col Pd e con il centrodestra. Forse anche una scelta un po’ suicida, pietra tombale sull’idea che questo Paese può cambiare. Oppure la constatazione che, se nasce un Matteo Renzi con alle spalle un partito strutturato, le velleità “rivoluzionarie” dei capipopolo rimangono appunto velleità.
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