FIRENZE – È presto per dire se ci sarà o meno una scissione nel Pd dopo questo fine settimana di fine ottobre. Se una battaglia è stata vinta dalle bandiere rosse della Cgil in piazza San Giovanni a Roma. O se la partita principale è saldamente in mano alla camicie bianche della Leopolda. Che poi il ministro Dario Franceschini è salito sul palco con una elegante camicia blu e Gennaro Migliore, ex Sel, indossava un abito spezzato. Una cosa è certa: tutto, in questa metà campo della politica italiana, è molto più chiaro e definito. E nulla sarà più come prima.
Renzi ha il pregio della chiarezza. Che ha il costo della ruvidezza e, spesso, dell’arroganza. Parla per cinquanta minuti, resta solo sul palco tra scrivanie, librerie, caschi, scalette, biciclette, il garage che ha fatto da sfondo alla tre giorni nella ottocentesca stazione ferroviaria fiorentina dove sono entrate 19 mila persone e per il gran finale zeppa come un uovo (a decine tenuti fuori dai vigili del fuoco per problemi di sicurezza) in ciascuna delle tre navate che ne costituiscono il corpo architettonico.
Il premier-segretario ha messo in fila una serie di concetti molto chiari rivolti alla piazza di Roma e alla minoranza dem del partito che ieri è andata alla manifestazione della Cgil. Primo: il mondo è cambiato, i sistemi di produzione sono cambiati, il modo di percepire l’impresa e l’imprenditore rispetto al lavoratore, “tutto questo è cambiato”.
“Il posto fisso – ha gridato Renzi strappando uno dei 35 applausi che hanno scandito l’intervento – non c’è più e non lo abbiamo deciso noi. È così che funziona oggi”. Però è compito della politica, e di chi governa, “fare in modo che il contratto a tempo indeterminato continui ad essere l’obiettivo”. Così come è compito di chi governa “dare assistenza a chi perde il posto di lavoro”. Assistenza vuol dire indennizzo, aggiornamenti professionali, un’altra occasione. “Questo è il jobs act, ditelo agli amici vostri che ieri erano a Roma”.
Secondo messaggio: l’articolo 18. “È qualcosa di vecchio, terribilmente vecchio, ribalta la prospettiva e carica sull’imprenditore un costo che invece deve essere dello Stato”. Peggio: insistere oggi sull’articolo 18 “è come voler insistere ad infilare il gettone del vecchio telefono nell’i-phone”.
Il terzo messaggio è diretto alla minoranza dem. “Io non ho paura – dice il premier-segretario – che si creino minoranze a sinistra, dentro o fuori il partito. Non m’importa perchè la mia, questa, è la sinistra del digitale, riformista e l’altra è quella del rullino fotografico”. Cioè conservatrice. Facessero quello che vogliono. A cominciare da Rosi Bindi che ieri aveva definito “imbarazzante” la Leopolda. “Noi rispettiamo chi in Parlamento e nelle piazze non la pensa come noi ma una cosa è certa: non consentiremo mai a quella classe dirigente di riprendersi il Pd e riportalo al 25%”. A percentuali incapaci di incidere, governare e cambiare il Paese.
La chiarezza, appunto, non fa difetto al premier-segretario. E il popolo della Leopolda ha lasciato la stazione sulle note di Alicia Keys (We are here) convinto che ormai la scissione sia cosa fatta. Anche se ministri e dirigenti si sono messi d’impegno, sul palco della Leopolda o negli immediati paraggi, prima di lasciare il microfono a Renzi, per limare, smussare, aprire e non chiudere. Da Boschi a Poletti, da Guerini a Serracchiani, da Franceschini a Migliore che ha appena preso la tessera del Pd e dice: “La piazza di Roma è una risorsa e va ascolta”.
Ma la scissione non è adesso. E dopo, chissà. L’incubazione, eventuale, ha una data finale: il voto alla Camera sul jobs act. Lì si vedrà se Fassina, Civati, Epifani, Bersani, Cuperlo, la stessa Bindi voteranno contro o a favore. Certo dipenderà da quanto la sinistra dem riuscirà a rosicchiare in termini di garanzie per i lavoratori nella delega al governo per riscrivere le regole del lavoro. Ma fino ad allora saranno battaglie. Dove una parte, quella renziana, ha detto chiaro che indietro non torna. E con altrettanta chiarezza ha detto che tipo di Pd deve essere: inclusivo, da Migliore a Romano (ex Scelta civica, anche lui sul palco), un partito della nazione, oltre il DNA delle vecchie ideologie.
Il punto è che le castagne dal fuoco dovrà levarle la minoranza dem. Nel senso che sarà lei a dover decidere se andarsene. “Noi non buttiamo fuori nessuno” ha detto il renziano Marcucci. Abbiamo solo indicato un percorso politico chiaro dove la vocazione minoritaria è finita”. Alfredo D’Attorre, bersaniano doc, cambia prospettiva: “Renzi ci vuole fuori? Se lo tolga dalla testa. Noi resteremo qui, al nostro posto, per restituire al partito la sua vocazione di sinistra e del mondo del lavoro”. Fassina avverte: “Senza cambiamenti non voterò il jobs act. E comunque è sempre meglio un partito di reduci che di finanzieri”.
Alla Leopolda in questi giorni sono sfilati padroni e operai. Imprenditori, finanzieri, partite IVA e start up. Gli operai della Ast di Terni sono arrivati in pullman e si sono fatti sentire restando fuori ma hanno poi incontrato Renzi. Quelli di Meridiana e Esaote sono entrati, hanno indossato tshirt rosse con scritto “io sono un esubero” e hanno ascoltato gli interventi. Daniele Calosi, delegato FIOM, ha denunciato di essere stato censurato e interdetto dal palco della Leopolda (chi vuole parlare deve inviare prima l’intervento scritto) ma poi ha incontrato il premier ai 150 anni delle Officine Galileo. E si sono fatti, scherzando, un selfie insieme.
Alla fine, tutti hanno avuto la loro parte. Il loro spazio. Possono stare tutti insieme in un solo partito? Sotto la big tent, la grande tenda già immaginata da Tony Blair? “Basta parlare di scissione dell’atomo a sinistra” ha tagliato corto Debora Serracchiani. La scissione può attendere. La destra se ne faccia una ragione.
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