GENOVA – “Correte, correte alla Diaz e alla Pertini che sta succedendo il finimondo!” così alle 23,30 di sabato 21 luglio 2001 la prima notizia era arrivata ai giornali, dove si stavano chiudendo le pagine del G8 genovese, il giorno dopo la morte di Carlo Giuliani, il giorno prima che il vertice dei Grandi si chiudesse in un clima infernale. Genova era ancora sprangata incerottata, ferita, offesa dalle opposte violenze dei blak bloc e da quelle della polizia, delle forze dell’ordine che avevano caricato “alla messicana”, tambureggiando gli scudi anti sommossa, che avevano sparato in alto e anche in basso, fino a provocare la morte del ragazzo Giuliani.
Genova era ancora spaccata per tre: zona rossa, zona gialla e il resto di una città svuotata, 300 mila abitanti che se ne erano dati prima, gli altri chiusi in casa, saracinesche abbassate, negozi chiusi, un coprifuoco col solleone, nel clima canicolare di fine luglio, tutto surreale.
“Correte, correte, denunciate quello che sta facendo la polizia” – telefonavano alle redazioni cittadini comuni della zona residenziale, tranquilla per tradizione, dove c’erano quelle due grandi scuole, diventate basi del movimento no global, come lo stadio Carlini, vecchio tempio del rugby, come tanti altri edifici pubblici, messi a disposizione dei manifestanti.
La Diaz, la Pertini edifici scolastici, stile Novecento, in strade riservate, silenziose, appena dietro la cornice di via Nizza, luminosa, una specie di terrazza affacciata sul mare della Foce, dove _ hanno sempre sostenuto gli esperti paesaggistici_ c’è la luce più bella di Genova, perchè la città e il golfo ligure ti si spianano davanti, fino all’estremo orizzonte di Ponente con l’imboccatura del porto che sembra di poterla toccare con una mano.
“Correte, correte…….” E i cronisti correvano dove avrebbero scoperto che il cielo sopra la Diaz e la Pertini, quella notte del 21 luglio 2012, era, invece, il più nero che avrebbero mai visto, con le ambulanze che portavano già via i feriti, con i poliziotti vestiti con la famosa divisa “atlantica”, in borghese ma con il casco blu luccicante di ordinanza, il manganello “proibito”, modello “tonfa”, che sarebbe poi stato sequestrato in tutta Italia dalla magistratura e la pettorina colorata del Reparto Celere di Roma, il famigerato reparto antisommossa, con i manifestanti barcollanti che uscivano come automi sulle proprie gambe nella strada e gli altri trascinati fuori di peso, con scie di sangue in un delirio di sirene, di urla, di straniamento totale.
Novantatrè feriti sanguinanti e quanti altri nella testa e nell’anima dentro la Diaz, guariti con il tempo, cicatrizzati, ma mai risanati del tutto da quella notte da incubo.
Oggi, undici anni dopo, la sentenza della Cassazione ha chiuso una partita giudiziaria lunghissima, che sembra quasi impossibile misurarla nel tempo della politica, un po’ meno in quello della giustizia, che pareva avere rinunciato a fare quel che doveva e che tutti oggi urlano proprio così: almeno giustizia è stata fatta, almeno i capi della polizia, che comandavano le forze dell’ordine di quella notte con il cielo buio sopra la Diaz e la Pertini sono stati degradati, qualcuno dice addirittura decapitati dalle loro carriere che in undici anni, alla faccia dei processi, delle sentenze, delle accuse, erano stati promossi, avevano fatto carriera. Tutti promossi, todos caballeros, meno due, il questore di Genova di quei giorni, Francesco Colucci, unico capro espiatorio, trasferito a Roma il giorno dopo il fatto e Arnaldo La Barbera, capo dellUcigos, morto di tumore nel 2002, colui sul quale era stato subito posata l’ala del sospetto più pesante. Chi aveva ordinato l’irruzione nella Diaz, mentre il G8 stava chiudendo le sue tragiche giornate, i capi di Stato stavano per farsi fotografare sulla scalinata di palazzo Ducale, ingessati nell’immagine gelida di un fallimento totale, nel vuoto siderale della città, ombelico della zona rossa, mentre Genova era ancora devastata, impaurita insozzata e l’immagine della Superba, trasmessa in tutto il mondo, era in balia di una violenza inaudita, mai vista, mai fotografata, mai raccontata?
L’aveva ordinata La Barbera, operativamente il più importante sul posto, in assenza di De Gennaro, il capo della polizia, in assenza del ligure ministro degli Interni del neonato governo Berlusconi, Claudio Scajola, lontano chissà dove, oggi qualcuno potrebbe dire amaramente già “ a sua insaputa”.
Ma nessuno ha mai confermato da dove quell’imput dell’irruzione, scattato per cancellare, per punire i blak bloc, per riscattare lo spiegamento gigantesco e inutile delle Forze dell’Ordine, oltre cinquantamila uomini schierati intorno e dentro la città, fosse partito.
“Andate alla Diaz, i blac blok che hanno bruciato, devastato, colpito, sono lì dentro, colpite, sprangate! Vendichiamoci di questi giorni d’inferno, dimostriamo che abbiamo la situazione in pugno e facciamolo subito, quando il vertice è ancora aperto!”
Chi aveva dato quell’ordine, quale vertice di servizio segreto, quale superpoliziotto aveva individuato la “zona sensibile” da colpire e il reparto con cui farlo, i duri della Celere romana?
Francesco Gratteri, Gilberto Calderozzi, Spartaco Mortola, il genovese capo della Digos, Ansoino Andreassi, Vincenzo Canterini, il capo del famigerato Reparto Mobile, eccoli i superpoliziotti che transitano dalla vicenda Diaz come se fosse una pratica delle tante: cosa facevano, cosa facevano quella notte del finimondo, che cosa riferivano sull’azione dei loro uomini a Robero Sgalla, il portavoce del capo della polizia, che si aggirava tra i corpi dei feriti con il telefonino acceso fino a “operazioni concluse”? A spiegare e tranquillizzare i cronisti, a minimizzare quel che già era enormemente evidente: sangue, sangue, barelle, ambulanze, denunce, il sindaco di Genova in persona, Giuseppe Pericu sul posto di notte a chiedere spiegazioni: “Cosa avete fatto, ma perchè, ora che tutto stava finendo?”. Li hanno prima mezzi assolti, poi condannati, poi prescritti, insieme ad altri, per il reato delle lesioni che sono state inferte ai novantatrè no global e infine condannati e degradati, grazie alla Cassazione. Ma nessuno di loro ha mai detto una parola di verità su quella notte, dopo la quale sono state costruite montagne di menzogne per raccontarla, quella notte, in un altro modo.
La storia delle due molotov, mostrate la mattina dopo l’irruzione nelle conferenze stampa a reti unificate, come trofei dimostrativi della pericolosità della miccia accesa dentro alla scuola Diaz e che, invece, giornalisti in gamba avrebbero scoperto essere state piazzate là dentro dai poliziotti stessi, comandati, ma da chi?, a precostituire l’alibi dell’irruzione. E la storia del corpetto antiproiettile, perforato dal coltello di un dimostrante, che invece era un’altra prova fasulla dell’agguato che i no global preparavano dentro alla Diaz? Accuse prefabbricate da solerti picchiatori, istruiti e comandati da capi vendicativi, oggi finalmente condannati e rimossi dalle loro brillanti carriere, che da undici anni sgusciavano tra le accuse come anguille, proiettate ai piani sempre più alti della gerarchia poliziesca.
Passano dall’Ucigos al Cesis, dalla polizia al Sisde, vengono promossi vice questori, poi questori come Mortola, probabilmente il responsabile della individuazione della Diaz. Insomma quella catena di comando che portò alla ricerca della vendetta poliziesca, dopo il fatto, malgrado le denunce, lo scandalo, i processi, diventa una catena che serve a scalare le gerarchie di polizia e dei servizi e se non arrivava la Cassazione, chissà dove arrivavano quelli che ancora sono in servizio e per i quali i vertici attuali, come il capo della polizia di oggi Antonio Manganelli, sono costretti a chiedere scusa alle vittime.
Undici anni dopo quella montagna di silenzi, deviazioni, menzogne è in realtà solo scalfita dalla sentenza “che fa giustizia”, solo sfiorata dalle scuse tardive che lo stesso De Gennaro, oggi sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel governo tecnico di Monti, è costretto a fare. Troppo tardi e troppo poco ha scritto Concita De Gregorio su Repubblica, una giornalista che quella notte era stata tra i primi a correre a vedere il finimondo.
Troppo poco. “Nessuno ha mai identificato chi ha cercato di uccidermi_ racconta, commentando l’ultima sentenza, Mark Covell, il giornalista inglese maciullato quella notte dalle manganellate mentre stava facendo il suo lavoro_ Nessuno ha mai identificato gli agenti che fecero l’irruzione, nomi,cognomi, qualifiche sotto quelle divise ibride, mezzi poliziotti, mezzi killer picchiatori.”
Lui, il giornalista inglese, è sopravvissuto a quella che fu definita “la macelleria messicana” e il suo cruccio è che i responsabili e i mandanti sono ancora senza volto.
Eppure di volti ed anche molto importanti ce ne erano molti in quella lunga giornata genovese, che avrebbe oscurato il cielo di via Nizza e dintorni, in quel quartiere così laterale rispetto alla zona rossa, alla zona gialla e ai percorsi dei cortei dei dimostranti. Altro che catena di comando della Ps. A Genova per decidere, coprire o semplicemente essere informata del blitz alla Diaz, c’era la catena del comando del governo Berlusconi II. A parte lui, chiuso nel vertice di Palazzo Ducale, dove si era preoccupato molto, alla vigilia, che le fioriere fossero molto ben disposte e che i famosi panni stesi alle finestre, marchio dei caruggi genovesi, fossero tolti e coperti da quinte finte di facciate “nobili”, a Genova c’era, agitato come un furetto GianFranco Fini, allora vice presidente del Consiglio, che passava da una caserma all’altra, carabinieri e polizia, dal Forte san Giuliano, lontano non più di trecento metri dalla Diaz, alla sala operativa della Questura.
Oggi, molto mutato da allora, l’onorevole Fini non ha mai detto una parola sulla sua presenza a Genova e sulla conoscenza dei fatti. Né di autocritica, né di spiegazione. E con lui non han parlato Filippo Ascierto, responsabile sicurezza di An, che scortava Fini come un perfetto capo-mazziere e che era un ex carabiniere. Lasciamo stare Scajola, che per il G8 si era mosso molto alla vigilia, arrivando a Genova per spiegare a agenti e carabinieri come si sarebbero dovuti comportare, per rassicurarli davanti alle voci montanti dell’assalto del “blocco nero”. Non fu lui a dettare le regole della “macelleria messicana” dentro alla Diaz, ma anche di fronte a molti dei cortei, compresi quelli non violenti, come la rete Lilliput, pacifisti con mamme e bambini, inseguiti e manganellati come devastatori? E allora chi fu a creare quel clima per il quale le trasmissioni tra la Centrale e le Volanti e i cortei e le pattuglie , ad ascoltarle anni dopo, svelano ancora tutto il raccapriccio di una violenza di Stato premeditata e organizzata: “ Quante zecche ci sono in quel corteo chiedevano dalla Centrale, – chiamando così i manifestati e poi continuavano -Schiacciateli bene, mi raccomando.”
E in quella catena di comando governativa c’era anche l’oggi desaparecido leghista senatore Castelli, allora ministro di Grazia e Giustizia, che andò alla caserma di Bolzaneto a congratularsi con le guardie carcerarie e non si accorse che stavano torturando i ragazzi fermati e arrestati, manco fossimo in una caserma della Gestapo. Pacche sulle spalle e poi silenzio anche un po’ sprezzante alle domande.
Ripetiamo: la sentenza della Cassazione, che punisce e decapita i vertici della Ps e riporta a galla undici anni dopo uno dei capitoli dei fatti di Genova del luglio 2001, arriva tardi e contribuisce poco a chiarire la verità. Per una volta la giustizia, la magistratura hanno fatto il loro dovere e sono arrivati in fondo a quello che era il possibile accertamento della verità sulla Diaz, prescrizione a parte. Ma la politica, che ha fatto di fronte a una delle ferite più clamorose inferte al quadro delle garanzie che proteggono i diritti civili delle persone, “sospendendo” di fatto lo stato di diritto a Genova per giorni e giorni, come hanno commentato illustri giuristi imparziali, non facinorosi estremisti?
La politica ha respinto fino dal primo momento l’ipotesi di cercare, appunto, una verità politica dentro al luglio genovese del luglio 2001. E’ stata più volte negata la possibilità che una commissione parlamentare d’inchiesta esaminasse quei fatti, a fianco del lavoro della magistratura ed oltre ad essa. Berlusconi due volte, e anche Romano Prodi si sono accontentati di un rapido esame, svolto da una commissione di indagine nel dopo G8. E così la verità “politica” è rimasta nascosta: quella di chi diede l’ordine di assaltare la Diaz, ma anche quella di capire chi gestiva veramente l’ordine pubblico durante le giornate di Genova. Chi aveva scelto una tattica”messicana” per i movimenti truppe in città, perchè il battaglio Tuscania dei Carabinieri, superesperto in ordine pubblico fu dirottato da un misterioso ordine in una zona neutra e a contrastare i no global furono mandati i carabinieri di leva in piazza Alimonda, con la conseguenza che il militare semplice Placanica sparò il suo colpo mortale e Carlo Giuliani diventò la vittima crocifissa in secula seculorum di questa storia.
Possibile che attraverso una strada politica non si possa trovare un’altra verità sulla morte di quel ragazzo, la cui indagine si archiviò con il timbro della Procura genovese, fidandosi del parere tecnico del medico legale di Torino professor Torre che avvalorò la tesi della pallottola partita dalla pistola di Placanica, deviata da un sasso lanciato dai dimostranti e “rimbalzata” sulla testa dello sventurato Carlo Giuliani.
Deve urlare oggi, dopo la sentenza della Cassazione, don Andrea Gallo, un prete da battaglia, che si ricerchi quella verità su quella pallottola vagante e non si muovono i politici rimasti sulla scena da quei giorni, con un po’ di coscienza rimasta a sua volta nel loro ruolo? O le urla nel silenzio della giustizia sono solo quelle di questo prete che con rispetto per la sua tonaca e le sue battaglie e solo un prete, per quanto diventato la superstar genovese, forse al di là dei suoi meriti e del suo ruolo?
Ora lo Stato chiede i danni ai poliziotti della Diaz e il loro capo di allora Gianni De Gennaro chiede scusa come il capo di oggi Antonio Manganelli, ma chiede ancora di rispettare i funzionari di polizia che si sacrificano, compiono il loro dovere e vincono battaglie di sangue contro il terrorismo e contro la malavita organizzata. Chiede, insomma, che i sospesi e i decapitati della Cassazione, luglio 2012, siano rispettati, malgrado tutto. Dov’è ancora nascosta la verità di Genova del 2001? Nei timori che fosse quel G8 l’obiettivo che poi sarebbero state, esattamente due mesi dopo, le Torri gemelle di New York attaccate dal terrorismo islamico e che nessuno ha mai svelato del tutto, salvo qualche battuta strisciata dell’allora ministro dell’Interno Scajola? C’erano insieme tutti i capi di Stato, non solo gli United States…. E questo giustificherebbe quella sospensione democratica e quei processi con tanti vuoti e quelle risposte mai date?
E’ troppo tardi e ne sappiamo ancora troppo poco.