GENOVA – E’ come una sfida all’Ok Corral, il famoso film western degli anni Sessanta, ma nella quale la sparatoria non comincia mai, perché uno dei due pistoleri si sottrae, scappa, si nasconde, si nega e magari fa sparare dal tetto di una palazzina già crivellata di colpi un suo complice. E il primo pistolero vaga per la città, con le mani dentro alle fondine, il calcio delle pistole impugnato nervosamente, il tamburo con tutte le pallottole al proprio posto, lo sguardo affilato e gli speroni che scintillano nel mancato mezzogiorno di fuoco.
Enrico Musso, candidato ballottante di minoranza con il suo risicato 15 per cento a Genova, espresso da una lista civica denominata OltreMare, appoggiato dal Terzo polo semievanescente di queste elezioni, con in tasca i suoi 40 mila voti circola così per Genova, cercando la sfida. Va alla caccia del suo contendente Marco Doria, il marchese Doria, vincitore del primo turno con il suo 48, 7 di voti, 120 mila raccolti con la sua lista, ma sopratutto con il Pd, il Sel, l’Idv, i rimasugli dei socialisti.
E Doria non accetta la sparatoria, si nega a ogni tipo di duello, cancella gli appuntamenti nei quali potrebbe trovarsi di fronte le pistole spianate di Musso.
Ecco la scena dei primi giorni di questo ballottaggio che tutti considerano quasi una formalità per la sentenza definitiva del primo turno a favore del centro sinistra, ma che forse non lo è nella turbolenza assoluta di un risultato che provoca effetti dirompenti: il candidato scornacchiato della Pdl Vinai che annuncia di votare scheda bianca piuttosto che Musso, il suo “capo” Claudio Scajola, leader imperiese che in una sensazionale intervista a Massimo Calandri di Repubblica spiega che nel nuovo centro in costruzione lui medita di prendere in considerazione i grillini, il capo dei grillini, lui, Beppe Grillo, che censura il suo candidato vincente genovese, l’educatore di strada Paolo Putti, forte di inattesi 35 mila voti e emana l’editto anti presenze nelle Tv dei suoi adepti, pena l’espulsione. E, infatti, Putti con la sua faccia un po’ stupita, un po’ addormentata era diventato in tre giorni una specie di icona: compariva contemporaneamente in tre emittenti a spiegare il verbo grillino, a Ballarò, a Tnord, a Primo Canale, nei tg di ogni emittente, un’orgia mediatica
In questo ambaradan il famoso duello non si riesce a fare, perchè la tattica di Doria è quella di sottrarsi, un po’ per masticare bene la delusione di non essere riuscito al primo colpo, un po’ per una sorta di alterigia nobile che sta nei suoi geni di sangue blù, un po’ perchè i suoi sostenitori ritengono che il duello, la sparatoria, contengano una percentuale di rischio alto per il supercandidato, sempre in difficoltà quando si trova di fronte a una platea ampia non da solo, ma con concorrenti o avversari. Insomma, un po’ come tutti i prof Doria sa parlare bene ex cathedra, ma nella dialettica serrata perde colpi.
La caccia di Musso a Doria è talmente esasperata che l’inseguitore ha addirittura meditato un gesto clamoroso per indurre il fuggitivo ad accettare il match: lo scontro in un vero dibattito pubblico, nella piazza centrale di Genova, la mitica De Ferrari degli scontri del 1960 e poi di ogni evento “forte” genovese: dai funerali dell’operaio Giuido Rossa alla sfilata conclusiva del G8 insanguinato, alle performances di Capodanno con Grillo (a proposito) nelle vesti di comico e basta che parlava dal balcone. E se Doria non accetta eccola lì una bella sedia vuota in mezzo alla piazza.
Tutto questo avviene in un tourbillon post elettorale dove si consumano ad ogni angolo sanguinose rese dei conti: il tornado dei risultati ha fatto molte vittime sopratutto nei due partiti per eccellenza, il Pd e la Pdl, dove il crollo delle percentuali ha cancellato dal consiglio comunale personaggi eccellenti come alcuni assessori di Marta Vincenzi, “quadri” importanti del Pd, quelli che SuperMarta aveva definito quaquaraquà, come figure storiche della politica ligure, Alberto Gagliardi, già scudiero di Baget Bozzo, sottosegretario berlusconiano, poi traslocato nella Idv e oggi incenerito con 68 preferenze, Giuseppe Costa, un altro ex forzista di lunga militanza democristo-berlusconiana. C’è come un fuggi fuggi generale nella città, dove il galeone di Doria è approdato a terra e dove la scena del duello si sposta da un quartiere all’altro.
L’analisi attenta del voto svela che Doria ha ridotto il vantaggio un po’ snob, un po’ ricercato che gli avevano concesso i quartieri alti della città e ha vinto in tutte le delegazioni popolari, quelle di Ponente e delle valli industriali o post industriali. Una elite raffinata con il naso all’insù, di nobili chic, di industriali e finanzieri molto riservati, continua a sponsorizzare il figlio del marchese diseredato Giorgio, invitandolo a cene e presentandolo agli amici. Per due volte il Doria è salito nella nobile e riservatissima magione di casa Puri, dove abitano le sorelle di Carlo Puri, l’ex, molto ex, socio di Marco Tronchetti Provera nella Pirelli Real Estate e dove risiedeva Ambrogio Puri, grande manager di Italimpianti, Italsider, Ansaldo, sopratutto antesignano dei rapporti aperti a sinistra, nella Genova degli anni Settanta-Ottanta, quella del muro a muro ideologico. Le belle tradizioni di famiglia non si disperdono e come il vecchio Puri apriva al Pci, oggi le sue eredi vezzeggiano Doria della sinistra radicale.
Un clima da anni Settanta-Ottanta? No, il mondo è cambiato e anche Genova apparentemente uguale a se stessa è così diversa, anche se quello sparo alle gambe dell’ingegner Adinolfi ha provocato un processo di revisione del passato che fa ondeggiare molti ambienti della città.
Cui prodest? Il tormento interrogativo di quel terrorismo datato e obsleto ma capace di agitare ancora i suoi fantasmi trova risposte rattrappite nella città che corre dietro ai grillini, ai nuovi radical chic, al vuoto pneumatico creatosi al centro dello schieramento, dove la scomparsa della vecchia Dc ed ora dei berluscones, inquieta un indefinibile fronte moderato. Avrebbero una sola sponda i ceti borghesi, la middle class sempre più ridotta dalla crisi (negozi che chiudono, centri commerciali targati Coop, quindi Sinsitra di potere che si mangiano quartieri interi, artigiani in estinzione), quelli che cercano affari intorno a un porto sempre più rarefatto e veloce, ingorgato da vie di comunicazioni asfittiche: Musso.
Ma anche Musso ha i suoi problemi di definizione e cerca lo smarcamento da tutti i partiti. Per questo insegue Doria e non lo becca, da un quartiere all’ altro: dal mercato di Piazza Palermo, oasi popolare tra quartieri medi del centro città, dove le massaie cercano di comprare più scontato possibile a quello di Bolzaneto, piena Valpolvevera ostoperaia e postfordista, dove troneggia l’IIT, Istituto per la Alta tecnologia, voluto qua da Tremonti, buonanima, dove lavorano 800 super ricercatori di tutte le nazionalità, indiani, inglesi, scozzesi, australiani di alto reddito che Genova ha relegato nella periferia più scomoda, dove non c’è una pizzeria e una pista da jogging degna di tanti ospiti.
Genova pre-ballottaggio è anche questa, contraddittoria e sparpagliata, la città dove se vince Doria entrerà in consiglio comunale un candidato grillino che ha preso solo 55 voti per co-decidere le scelte pubbliche e dove Doria e Musso non riescono ad affrontarsi per dire una volta per tutte cosa pensano sulle operazioni chiave di una città declinante: non la pizza degli scienziati IIT, ma la Tangenziale chiamata Gronda, la ferrovia che sblocchi le decine di migliaia di Tir che dovranno uscire dal porto, la metropolitana che in trenta anni e sei sindaci è riuscita a crescere di soli 6 chilometri e duecento metri e della quale in tutta la campagna elettorale non si parla. Per vergogna. Aspettiamo il mezzogiorno di fuoco.