La lettura del decreto legge n. 93, soprannominato, nella vulgata mediatica, con il cacofonico termine di femminicidio, genera nel giurista numerose riflessioni ed un qualche stordimento. Il suo esame delude ogni attesa. Infatti è un’incomprensibile miscellanea di provvedimenti che riguardano anche la violenza negli stadi, l’accesso ai cantieri, il furto di rame e componenti di infrastrutture tecnologiche, inoltre le calamità naturali ed i vigili del fuoco (a tacer d’altro), eccentrici rispetto al tema centrale. V’è da chiedersi se una malintesa percezione dell’emergenza sia il comun denominatore delle norme disparate, servite alla Camera in un imbevibile cocktail estivo.
Le intenzioni del Governo si palesavano altisonanti: “prevenire la violenza di genere, punirla in modo certo e proteggere le vittime”, tale la descrizione del vice premier, Angelino Alfano. Di questi propositi nel decreto si rintracciano labili segni verbali nella riforma penale e si disvelano pericoli per le garanzie processuali ed i poteri burocratici di tutela.
Sull’onda di notizie che denunciavano criminalità familiari – e senza badare alle statistiche – il Governo si è dedicato all’inasprimento delle pene per alcune ipotesi di violenza sessuale, maltrattamenti in famiglia e di atti persecutori (comunemente definito stalking).
1) Per i maltrattamenti in famiglia è modificata un’aggravante: prima la reclusione era aumentata se il fatto era commesso in danno di minori di 14 anni, ora questa sensata previsione è ampliata anche con la consumazione in presenza di minori fino a 18 anni.
2) Per la violenza sessuale è introdotto un aumento di pena, se commessa in danno del coniuge, anche separato e divorziato, o di persona “legata da relazione affettiva anche senza convivenza”. Quest’ultima locuzione – copiata dalla norma sullo stalking e già ampiamente criticata – genera problemi interpretativi evidenti. Il Giudice dovrà definire un termine poetico “relazione affettiva”, privo di concretezza razionale. Sarebbe divertente accennare alla casistica dei dilemmi posti dall’infelice ed inadeguata terminologia, ma la stessa fantasia del lettore può sostituirsi alla mia.
3) Il reato di stalking conosceva già simile aggravante, il decreto la estende ora al coniuge, prima non contemplato. Ciò pone un problema, il fatto persecutorio è maggiormente comprensibile e perciò indice di minore gravità, se perpetrato da un soggetto che vanta un legame sentimentale, lo è meno se commesso da un estraneo o mero conoscente, perché smaschera un atteggiamento perverso e maniaco della psiche.
4) In più, la querela per questo reato è trasformata in irrevocabile, ossia la vittima non è più libera di rimetterla e far terminare il processo. L’unica norma analoga esiste per la violenza sessuale, ad evitare che la persona offesa possa, per denaro o minacce, abbandonare le accuse. Profonde motivazioni ed esperienze pratiche sostengono la razionalità di questa previsione. Trasferita al reato di atti persecutori la norma determina controproducenti rigidità e limita il potere di autodeterminazione della vittima, anche in seguito a modifiche dei rapporti con l’indagato/a. Paradossalmente la previsione, d’intento tutorio, si trasforma in un deterrente alla querela, contrastante con le altre previsioni che incentivano le accuse.
5) Di acrobatica applicazione l’arresto in flagranza per i reati di maltrattamenti in famiglia e stalking. Si tratta, infatti, di delitti catalogati dai giuristi come abituali, ossia che si consumano con una pluralità di condotte dello stesso tipo: in altri termini, un unico atto violento nei confronti di un familiare può costituire i reati di percosse e lesioni, soltanto una ripetuta serie di questi il reato di maltrattamenti; analogamente avviene per lo stalking. E’ difficile immaginare la flagranza, ossia la presenza costante delle forze dell’ordine a fatti continuati.
6) Le incongruenze interne e di sistema del decreto non si esauriscono qui. Alla persona offesa di maltrattamenti in famiglia ed in parte di stalking sono assicurate garanzie processuali d’eccezione: come la continua informativa sullo stato del procedimento, negata anche ai parenti di reati di molto più gravi, quali l’omicidio o la strage. La vittima può conquistare il diritto alla testimonianza protetta (che si svolge in una stanza appartata, condotta da uno psicologo, attraverso il quale il giudice e le parti possono interloquire nascosti dietro uno specchio) sinora giustificato privilegio dei minori. Le macroscopiche differenze tra i due casi rendono la norma in sospetto di illegittimità costituzionale, accentuata dal fatto che neppure i denuncianti dei reati di mafia o di terrorismo sono ammessi a godere di altrettante garanzie. Uno squilibrio che non pare tollerabile.
7) Il Governo ingigantisce i poteri della Polizia Giudiziaria: di fronte alla sola segnalazione (e non querela) di un episodio di lesioni familiari, può ammonire l’accusato e persino sospendere temporaneamente, tramite il Prefetto, la patente di guida.
8) Un’altra norma – decisamente inquietante – prevede una figura di lontana, ma infelice memoria storica veneziana: il denunciante anonimo. Questi può accusare chiunque del reato di maltrattamenti in famiglia, dietro il perpetuo segreto della propria identità. Previsione eversiva rispetto alle garanzie di difesa, ma anche facile strumento di calunnia e di inutili vendette (si sa che i condomini o le piccole cerchie generano odi e dissapori, pericolosi quanto quelli interni alle famiglie).
9) Pare un po’ eccessiva, in una stagione di crisi e con il magro bilancio del Ministero, la concessione del gratuito patrocinio, qualsiasi sia il reddito, alle vittime di maltrattamenti in famiglia e di stalking.
10) Ancora d’incitamento alla denuncia, la norma che, pur con limiti, riconosce il permesso di soggiorno alle vittime dei reati di violenza sessuale, lesioni, stalking e maltrattamenti in famiglia. E’ facile immaginare che qualcuno potrà orchestrare accuse per ottenere l’ambito beneficio.
11) Tra queste norme se ne annida un’altra dissonante: l’aggravante per il cyberbullismo, ossia la persecuzione compiuta attraverso le nuove tecnologie. L’aumento di pena è irrazionale perché il fatto è meno invadente del disturbo diretto attuato di persona o mediante il telefono.
In sintesi, si tratta di un decreto incongruente, illiberale, distante dalle intenzioni proclamate, asservito a false emergenze. E’ naturale attribuirgli tutti i difetti dei provvedimenti che inseguono le mode, per trasformare l’essenza stessa del diritto penale, da estremo mezzo repressivo, in retorica politicante.