Il 20 agosto era previsto che presentasse a Cortina il suo ultimo libro: “Quanto erano belle le mie guerre!”, ma non ha partecipato all’evento, perché morto cinque giorni prima, all’età di 88 anni, nella casa che fu di Voltaire.
Vergés è stato un personaggio indimenticabile, che con le sue difese estreme (dagli anticolonialisti, al criminale di guerra Barbie, al terrorista Carlos, dalla violenza di destra a quella di sinistra) ha dato la massima dimostrazione dell’intangibilità del diritto di difesa.
Ha dedicato la sua vita a rappresentare l’essenza stessa della professione forense: difendere non significa condividere il crimine, non significa identificarsi con il cliente e le sue posizioni ideologiche. La difesa è strumento che deve essere garantita chiunque, qualsiasi crimine abbia commesso, perché è un diritto universale. Nessuno forse, quanto lui, ha incarnato questi ideali, ora misconosciuti da troppi che tendono ad immedesimare il difensore con il suo assistito ed attribuirgli la stessa identità e caratura criminale, che ritengono la difesa, in alcuni casi, un ostacolo ad un rapido processo, invece che l’unico mezzo per garantire la dialettica per la decisione e consentire che questa promani da una triade formata anche dall’accusa e dal Giudice.
Per la sua propensione, e nonostante il carattere che traspare dalle sue opere, Vergés era stato soprannominato l’Avvocato del “diavolo” o del terrore, e questo è il titolo di un film di Schroeder a lui dedicato.
Difendere gli indefendibili è stata la sua passione, lo scopo di una vita vissuta con rigore impeccabile. Sia di esempio e di monito a coloro che mistificano il diritto di difesa e non riconoscono la terzietà e l’essenzialità del ruolo dell’avvocato.