Il rapporto tra magistrati e politica è tema da lungo tempo dibattuto; diviso fra teorici dell’impegno e fautori dell’agnosticismo, come unica condizione per esercitare il magistero senza interferenze.
Proprio in questa delicata stagione pre-elettorale riprende vita, per alcune candidature attuate o annunciate. Può un Giudice, può un Pubblico Ministero prestarsi alla politica, senza rendere dubbio il lavoro svolto nel passato? Le risposte sono semplici se collocate su un piano astratto che prescinda da casi particolari.
Il magistrato è un cittadino come tutti gli altri e va trattato e merita di vivere alla stregua di un comune mortale. Non gli può, cioè, essere interdetto un diritto pubblico: quello di pensare politicamente. Non si può rendere, in altri termini, una classe di cittadini acefala e avulsa dalla realtà sociale. Tanto più che deve confrontarsi ogni giorno con quella stessa realtà, ed i suoi fenomeni patologici, e, dunque, necessariamente saperla conoscere ed interpretare.
Parrebbe dunque incostituzionale reprimere la libertà di pensiero e vietare al magistrato di avere propensioni politiche. Deve tuttavia porsi un punto fermo e saldo: l’orientamento politico non deve in alcun modo influenzare il lavoro giudiziaria, pena la perdita della irrinunciabile imparzialità che costituisce il perno del mestiere di giudice.
Inutile nascondersi una verità, alcuni magistrati non hanno fatto tesoro di questa regola aurea, ma altri, pur avendo convinzioni politiche, se ne sono spogliati nel giudicare o nell’indagare, mantenendo la terzietà che loro compete. Sono anni che la politica è entrata nelle aule giudiziarie e probabilmente più in maniera occulta che appariscente e si sono vissute stagioni peggiori della presente che ciascuno ricorderà, quando l’influenza dei potenti muoveva la macchina del processo nelle direzioni preferite.
Ora si contano molti Uffici che resistono tenacemente a qualsiasi pressione occulta o manifesta. Tema risalente, dunque, che tuttavia ogni volta si ripropone come novità a seconda delle evenienze. Questo è il turno delle candidature; nulla di nuovo perché in Parlamento od in altre stanze del potere già siedono numerosi giudici che hanno deciso di abbandonare la toga per seguire le loro convinzioni. E’ auspicabile che la maggior parte di loro abbia svolto il suo lavoro nel rispetto dell’imparzialità e che non abbia strumentalizzato per le elezioni i processi svolti, in modo da farne una bandiera. Perché i mondi, per quanto vicini, devono restare, a mio parere, rigorosamente separati.
Allora non vedo neppure quale ragione polemica debba sorgere per qualche candidatura di magistrati, annunciata in questa legislatura, un po’ da tutte le parti politiche. La scelta è ovvia: contare su tecnici del diritto capaci anche di un pensiero politico e soprattutto adeguato alla realtà sociale vissuta per anni nelle aule giudiziarie.
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