ROMA- Perfino i mattacchioni che su Facebook e blog si scambiano accorati e sedentari annunci della “rivoluzione che arriva”, perfino loro se leggi bene le loro labbra telematiche e fai la tara della “spuma” via web, altro non chiedono vogliono e bramano che in questo paese chiamato Italia tutto torni presto e integralmente come era prima. Prima della globalizzazione, prima dei cinesi…Prima della crisi, prima della Merkel…Prima di Obama, di Equitalia e di Monti. Insomma come era prima, una trentina o quasi di anni fa. Allora non c’erano “rivoluzioni” e “popoli” in rabbia e marcia, allora c’era una generazione che arredava per starci comoda assai la casa costruita dalla generazione precedente. Per l’arredo ampio e appunto comodo la fattura doveva ancora arrivare.
A “come era prima” vorrebbe tornare l’elettore che fu di Berlusconi e che ora si è dileguato da Berlusconi. Dileguato perché Berlusconi aveva giurato e garantito che tutto sarebbe continuato come prima, soprattutto il continuare ad “arredare” e ovviamente spedire ad altro indirizzo la “fattura”. Berlusconi non ha mantenuto, l’elettore che fu suo si dilegua.
Del “come era prima” è invaghito l’elettorato che fu, è e sarà della Lega, quello al cui naso le frontiere aperte, anche in economia, “puzzano” eccome. Quello che diffida della fregatura Europa. Del “come era prima” è fan più o meno consapevole l’elettore di Beppe Grillo, vuol cambiare tutto l’abito, cioè il ceto politico. E affidare quindi ai cittadini diventati immediati esecutori della volontà del popolo appunto la volontà del popolo. Che è, come registra ogni sondaggio e mostra ogni movimento sociale, di sbattersi il meno possibile, rischiare nulla, tenersi con le unghie e con i denti quel che c’è o meglio quel che come gruppo si ha.
Il “come era prima” è il traguardo al futuro della sinistra: le pensioni a 58 anni di età con 35 anni di contributi, le fabbriche che anche se chiudono restano “vive”, “politicamente” vive, i precari che soffrendo ma per anzianità diventano tutti impiegati o professori…
L’elettore di sinistra, di destra e di centro in forma diversa ma con un denominatore comune che non è neanche minimo: conservare quel che c’è, difenderlo, ripristinarlo. A quel che c’è o che c’era appena ieri il paese è così affezionato e assuefatto che negli ultimi venti anni è stato attentissimo a non modificarlo. Attento a non far “danno” all’esistente, prudente fino all’immobilità. Immobile la produttività nei luoghi di lavoro, cioè la somma di innovazione scientifica, rischio da capitale, tecnologia, organizzazione del lavoro, disponibilità sindacale. Immobile la formazione, cioè scuola e università. Immobile il salario. Immobili le “caste”, mica una, tante.
C’era un bel patto sociale: il lavoro autonomo aveva il diritto di non pagare le tasse o di far finta di pagarle. In questo modo cresceva, più negozi e studi professionali e professionisti e “filiere” di quante ne servano, eravamo e siamo il paese europeo con più lavoratori autonomi in percentuale. Era un sistema costosetto e instabile ma stava in piedi e dava belle soddisfazioni. I dipendenti pubblici avevano il diritto a poca paga e poco lavoro. E soprattutto a non essere mai disturbati da concetti quali produttività, efficienza, competenza, qualità. Non era una gran vita ma era stabile e, come il posto fisso dello Stato, era scritto nel granito.Gli imprenditori avevano diritto ai finanziamenti e sostegni a pioggia, i pensionati a diventare tali il più presto possibile. Il ceto politico aveva il diritto a redistribuire sul “territorio” decine e centinaia di miliardi, il sindacato a compartecipare alla distribuzione. Era un’Italia che “andava”.
E d’improvviso, a tradimento, canagliescamente le intollerabili imposizioni. Imporre agli imprenditori di innovare e competere, investire, rischiare. Dice che l’hanno sempre fatto. Forse, stavolta devono cambiare cosa e come produrre, devono “spostare” uomini e capitali e tecnologie da settori ad altri settori. I sindacati, per loro l’imposizione di aiutare il trasloco invece che di aggrapparsi ad ogni tavolo che si sposta da una stanza all’altra, figurarsi una riconversione industriale. Imposizione di pagarle davvero le tasse. Imposizione di ridurre “filiere” e costi, corporazioni e pedaggi per non andare fuori mercato. Imposizione di una qualità minima nella prestazione di un servizio pubblico. Imposizione della pensione a 65 e passa anni. Imposizione della competenza nella didattica e nell’apprendimento. Imposizione insomma di cambiare l’intero caro, sperimentato, conosciuto modo di vivere. Dalla culla alla classe, dalla scrivania alla fabbrica, dall’ospedale alla casa e anche di più.
Troppo, decisamente troppo per un paese dove “riformare” vuol dire aggiustare quello che c’è perché continui ad esserci. Dove mai riformare ha voluto dire avere la voglia, il coraggio e l’intelligenza per “rottamare” e non aggiustare. Troppo per un paese in cui da due secoli ormai il riformismo vero, di destra o sinistra che sia, è sempre stato minoranza sociale e quindi elettorale.
Contro questa corrente che è senza dubbio quella di maggior portata nel paese, contro la corrente dell’Italia immobile e anelante a restar tale, un milione di persone ha votato Matteo Renzi alle primarie del centro sinistra. Votare Renzi non voleva dire votare “a destra”. Se uno vuole votare a destra in Italia non ha che l’imbarazzo della scelta e non si vede perché dovrebbe attendere uno del Pd per farlo. Votare Renzi ha voluto dire votare contro la versione maggioritaria e immobile della sinistra. Ha voluto dire votare contro la politica come la intende Rosy Bindi e cioè degnissima e correttissima distribuzione del denaro pubblico da parte di uno Stato insieme Bancomat e Caritas. Contro il sindacato e la politica come li intende Susanna Camusso e cioè “resistere, resistere, resistere” perché nulla cambi nei “diritti acquisiti”.
Votare Renzi ha voluto dire mostrare consapevolezza che i “diritti acquisiti” non esistono in quanto tale, non sono diritti naturali, infatti prima di acquisirli non c’erano. Consapevolezza della demagogia nel gridare orrore e scandalo perché “ai precari scade il contratto”. Non scadesse loro il contratto non sarebbero precari. Ma, a parte le consapevolezze, votare Renzi ha voluto dire accettazione, speranza e insieme scommessa su un riformare che non è aggiustare e conservare ma fare proprio di nuovo, da capo, diverso da quel che c’era. Differente da “come era prima”.
Un milione di voti sono tanti e insieme pochissimi. Tanti se rapportati alla debolezza storica del riformismo italiani. Tanti se rapportati alla stolidità di quanti a sinistra hanno bisogno di battezzare “destra” il riformismo non conservatore. Un milione di voti che alla domanda di Sergio Chiamparino se sia di destra o di sinistra vendere una municipalizzata (cosa che Bindi e Camusso non farebbero mai) per con quei soldi farci un asilo nido, risponde che è cosa utile e pensa sia pure di sinistra. Ma pochi, pochissimi se rapportati a quel che servirebbe da subito. Una sinistra riformista davvero che governi l’Italia a cambiare i suoi connotati invece di cercar di proteggerla a non escoriasi la pelle. Una sinistra di questo genere Bersani ce l’ha nel cuore ma non nella testa, non è la sua cultura e neanche quella di gran parte del Pd. Una sinistra di questo genere Vendola la sogna come il suo incubo peggiore.
Matteo Renzi non vincerà il ballottaggio e neanche diventerà candidato premier e neanche premier, ruolo per il quale ha probabilmente ancora “pagnotte da mangiare”. A primavera i partiti, dalla destra alla sinistra passando per Grillo, offriranno all’elettorato la “merce sicura”. Sarà una gara a chi convince meglio e di più che si può difendere, aggiustare, ripristinare il “come era prima”. Ci crederemo in grandissima maggioranza, dalla destra alla sinistra passando per Grillo, in questa favola bugiarda. Salvo poi scoprire, quando sarà tardi e con il senno di poi, che quel milione di voti a Renzi conteneva il dubbio non infondato, il dubbio che la “narrazione del come era prima” nulla altro sia che il vecchio medico pietoso che fa la piaga purulenta.
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