La bozza di legge sulla diffamazione che la Commissione giustizia del Senato ha partorito rappresenta un passo avanti rispetto alla situazione attuale, in quanto elimina il carcere per i reati di opinione e di informazione. Rappresenta anche un passo indietro per il valore delle multe destinate a sostituire il carcere. Delude totalmente rispetto alla dissuasione delle querele temerarie. Ma procediamo con ordine.
È da 5 anni, cioè dal 2009, che la stampa italiana è considerata non libera, ma solo semilibera dall’organismo che si occupa di valutare la salute della libertà di stampa nel mondo e ne stila la relativa classifica. L’organismo si chiama Freedom House. In attesa della pagella per il 2014, l’anno scorso l’Italia era penultima tra i 25 Paesi dell’Europa Occidentale.
Nel 2008 eravamo solo al 65° posto nel mondo, ma la nostra stampa veniva ancora definita libera. Il peggioramente è dovuto anche alla progressiva scomparsa degli editori cosiddetti puri, che di mestiere fanno cioè solo gli editori e non anche i banchieri, gli industriali, i palazzinari, i finanzieri, ecc, che usano i propri giornali per fare meglio gli affari loro,
La situazione, già di per sé brutta, è destinata a peggiorare perché la legge sulla diffamazione a mezzo stampa non riforma in modo deciso la situazione attuale. Come ho scritto sopra, rappresenta una soluzione a metà, come se i politici italiani, eliminando la vergogna del carcere per i reati di opinione in Italia non per convinzione ma per decenza, si siano comunque voluti cautelare di un eccesso di libertà da parte dei giornalisti proprio in una fase della vita italiana in cui non c’è partito che si salvi più dagli scandali e le notizie, nonostante remore e condizionamenti, circolano abbastanza libere.
Una delle cose importanti da fare è stata fatta: evitare che il reato di opinione sia considerato di tipo penale, perseguibile cioè anche con condanne al carcere.
Poi, però, quello che dava una mano l’altra lo ha ritirato.
Un passo importante sarebbe stato eliminare la possibilità delle querele pretestuose e non solo quelle, ma anche le minacce di querele, che da sole spesso sortiscono un grave effetto intimidstorio. Le querele pretestuose sono quelle presentate al magistrato solo per intimidire l’autore di un articolo chiedendo mega risarcimenti anche quando in realtà le basi per la querela non ci sono. Sotto quest’ultimo profilo, basterebbe che chi sporge querela senza fondati motivi venga condannato a risarcire lui il querelato, e con cifre multiple di quelle pretese dal giornalista preso di mira.
Invece, ecco cosa è stato partorito a suo tempo dalla Camera, che il Senato si è ben guardato da toccare:
“Condanna del querelante alle spese e ai danni
1. Quando si tratta di reato per il quale si procede a querela della persona offesa, con la sentenza di non luogo a procedere perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso il giudice condanna il querelante al pagamento delle spese del procedimento anticipate dallo Stato.
2. Nei casi previsti dal comma 1, il giudice, quando ne è fatta domanda, condanna inoltre il querelante alla rifusione delle spese sostenute dall’imputato e, se il querelante si è costituito parte civile, anche di quelle sostenute dal responsabile civile citato o intervenuto. Quando ricorrono giusti motivi, le spese possono essere compensate in tutto o in parte.
3. Se vi è colpa grave, il giudice può condannare il querelante a risarcire i danni all’imputato e al responsabile civile che ne abbiano fatto domanda.
3 bis. Il giudice può altresì condannare il querelante al pagamento di una somma da 1.000 euro a 10.000 euro in favore della cassa delle ammende.
4. Contro il capo della sentenza di non luogo a procedere che decide sulle spese e sui danni possono proporre impugnazione, a norma dell’articolo 428, il querelante, l’imputato e il responsabile civile”.
In altre parole: uno ti spara per intimidirti una richiesta di 10 milioni di euro di danni (cosa che le aziende di Berlusconi e non solo hanno fatto) e cosa rischia? Massimo diecimila euro di multa.
Dopo l’avvio con la fanfara dell’esame sui progetti di riforma e dopo le prese di posizione polemiche, quando sono emerse le reali intenzioni dei politici dal testo approvato dalla Camera, su questo importante argomento è calato per molti mesi il silenzio, mentre il Senato lavorava alacremente a peggiorare, nel senso liberticida, la legge.
Il risultato che è emerso in questi giorni è molto deludente: qui mi sono limitato ad alcuni aspetti della legge, ma altri ne sono stati esaminati e il risultato non è bello-
Di recente, per esprimere le loro preoccupazioni per la perdurante mancanza della riforma della diffamazione a mezzo stampa, hanno scritto una lettera al direttore del Corriere della Sera personaggi di rilievo internazionale: Dunja Mijatović, rappresentante OSCE per la libertà dei mezzi d’informazione; Nils Muižnieks, commissario del Consiglio d’Europa per i diritti umani, e Frank La Rue, relatore speciale delle Nazioni Unite per la libertà di stampa. Tutti e tre raccomandano la depenalizzazione e un argine contro la richiesta di risarcimenti di fatto solo intimidatori.
Merita anche leggere le parole di un magistrato con 40 anni di carriera qual è Giancarlo Capaldo, procuratore aggiunto della Repubblica presso il tribunale di Roma. A pagina 226-227 del suo libro “Roma mafiosa”, edito nel maggio dell’anno scorso, si leggono infatti le seguenti affermazioni:
“La debolezza della politica immiserisce il ruolo della magistratura poiché la fa diventare facile preda di quei suoi esponenti che hanno bisogno del mondo della comunicazione (della carta stampata, della televisione, dell’informazione in rete) per riuscire a pubblicizzare le proprie inchieste e poter incidere sul sistema. Poiché ormai esiste solo ciò che i media raccontano, anche se inesatto, virtuale o inesistente, la magistratura che si offre come soggetto politico ha bisogno dei mass media per esistere, ma i mass media hanno bisogno del lavoro della magistratura per alimentare il circuito di notizie vere, quasi vere, verosimili, false”;
“Da qui nasce un rapporto incestuoso tra una certa stampa e una certa magistratura che, invece di svilupparsi come poteri autonomi e responsabili tra loro indipendenti, finiscono con l’avere interessi comuni che travalicano quelli legati alla sola esigenza di giustizia e dell’informazione”.
“Il ruolo costituzionale di quella stampa e di quella magistratura muta e la loro attività diventa politica tout court. Si assiste così alla nascita dei processi penali esplorativi, strumenti che rispondono a logiche diverse da quelle del diritto e che vengono utilizzati per colpire soggetti politici, economici o finanziari. Si tratta di processi che incidono sui contesti politici ed economici e consentono alla politica la sostituzione forzosa di vertici di enti, ministeri e imprese per via giudiziaria. La magistratura che si presta a questo tipo di pratiche aiuta la politica, che non vi riesce con le sue forze e con i suoi strumenti, a sostituire la classe dirigente del paese. Ottenuto lo scopo, però, quella stessa magistratura tende a porsi come potere supremo in contrasto con gli altri poteri e cerca l’alleanza con quella parte della stampa che si scaglia contro il sistema”.
“Apparentemente la giustizia diventa rivoluzionaria, in quanto tende a disegnare un diverso rapporto tra i poteri, ma è in sostanza uno strumento di restaurazione, di riequilibrio, di puntello politico, e si nasconde ipocritamente dietro lo schermo degli “atti dovuti”, cioè dietro l’apparente rispetto formale delle regole nello stesso momento in cui le distrugge”.
Insomma, alla necessità di riformare la legge sulla diffamazione a mezzo stampa, e annessi risarcimenti, si accompagna la preoccupazione di non vedere peggiorare i già brutti voti della pagella annuale stilata dalla Freedom House.
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