Tengono banco i nuovi sviluppi, o botti, del mistero di Emanuela Orlandi, scomparsa nel nulla 30 anni fa. Mentre i magistrati cercano di vederci chiaro nelle varie dichiarazioni di Marco Fassoni Accetti, un lettore mi ha inviato via Facebook la foto di un allestimento artistico reperita nel sito con le opere di Accetti.
Foto decisamente interessante: vi si vede chiaramente sullo sfondo una figura umana, che si direbbe femminile a giudicare dai capelli lunghi, che impugna un flauto che pare il gemello di quello fatto trovare a “Chi l’ha visto?”. Il gemello o proprio “quello”. Per gli inquirenti quindi un nuovo grattacapo.
Nel frattempo vale la pena notare come Accetti usi nelle sue opere – foto e cinema d’arte – forti dosi di simbolismi, tanto da apparire un uomo intriso, tormentato dai simbolismi e dal cripticismo. In fin dei conti il flauto che ha fatto ritrovare potrebbe essere un modo, fortemente simbolico, di sollecitare le coscienze con quello che di fatto è un grido disperato: “Chi sa parli!”.
Vedremo. Intanto a Roma filtrano dal palazzo di giustizia e dintorni le perplessità, ma anche l’arrabbiatura, per il fatto che prima di essere consegnato alla polizia scientifica il flauto fatto trovare la mattina del 3 aprile è rimasto per almeno 24 ore nelle mani della troupe di “Chi l’ha visto?” e poi anche di Pietro Orlandi. Con possibilità di inquinamento delle tracce organiche utili a estrarre un eventuale profilo di Dna per capire se Emanuela Orlandi abbia o no mai suonato quello strumento musicale. Gli inquirenti temono che, magari per umanamente comprensibile emozione, qualcuno degli Orlandi abbia provato il flauto, un modo insperato per sentire la presenza della congiunta scomparsa.
Le perplessità degli inquirenti derivano anche dall’eccessiva sicurezza mostrata da Pietro Orlandi nell’affermare che il flauto fatto trovare da Accetti è proprio quello di sua sorella. Un’eventuale contaminazione del flauto non basterebbe per fare emergere un Dna specifico attribuibile a Emanuela, ma sarebbe più che sufficiente per un Dna “compatibile” utile per alimentare a lungo le ambiguità e i sospetti. Se non altro i sospetti di chi, e tra i fans di Pietro Orlandi sono moltissimi, è sempre pronto a vedere complotti di ogni tipo per non fare emergere la verità su questo e su altri misteri irrisolti.
Le elucubrazioni sui numeri e le date che portano al giorno dedicato alla Madonna di Fatima fanno invece temere che l’idea del ritrovamento sia stato realizzata, magari con il flauto utilizzato per la foto artistica, quando in Italia è stato pubblicato il libro con l’autobiografia di Alì Agca, il terrorista turco che nell’81 sparò a Papa Wojtyla in piazza S. Pietro proprio il giorno della Madonna di Fatima, cioè il 13 maggio. Agca nelle sua ennesima versione, ormai se n’è perso il conto, afferma che a ordinargli di sparare al papa fu addirittura Khomeini in persona, vale a dire la guida spiritual politica dell’Iran di quei tempi. E che anche il rapimento della Orlandi è farina del sacco iraniano, come pure la decisione di rispedire sì in Italia la ragazza, ma per farla chiudere in un convento in accordo con il Vaticano.
La bontà della pista islamico iraniana è stata sostenuta dal più famoso degli intellettuali cattolici, cioè da Vittorio Messori, proprio basandosi sul fatto che l’attentato a Wojtyla è stato compito nel giorno della Madonna di Fatima e che il suo santuario è caro anche agli islamici, che anzi lo considerano cosa loro assieme alla stessa Madonna.
Il magistrato Rosario Priore, che indagò a lungo, ma senza successo, sugli eventuali complici di Agca nell’attentato al papa, ha anche lui sostenuto la bontà della pista islamica rivelando, dopo 33 anni, che il turco si era completamente depilato come usano fare i “martiri”, cioè i kamikaze islamici prima di farsi saltare per aria assieme a chi capita e presentarsi quindi ad Allah. Il punto debole della suggestione di Priore è che si può depilare anche chi va a compiere spontaneamente un’azione dalla quale molto probabilmente non uscirà vivo, senza che questo implichi necessariamente che esegua ordini di Khomeini o di chi per lui.
Per quanto mi riguarda, sono invece perplesso nei confronti delle affermazioni di Accetti, persona senza dubbio intelligente e ironica, oltre che simpatica, sul fatto che i comunicati a suo tempo firmati Phoenix siano stati fabbricati dai nostri servizi segreti civili di allora, il Sisde. A me infatti, come ho scritto nel mio libro del 2002, l’ex colonnello Gunther Bohnsack dei servizi segreti della Germania Est, la famosa Stasi, ha detto chiaro e tondo che il suo ufficio, il X Dipartimento, aveva fabbricato i vari comunicati dei “rapitori” di Emanuela firmati Fronte Turkesh, ma anche i comunicati e le lettere firmate Phoenix.
L’attribuzione della firma Phoenix al Sisde è una convinzione di Pietro Orlandi nata quando l’allora agente del Sisde e amico di famiglia Giulio Gangi commentò la prima comparsa di tale firma buttando lì una frase: “Boh, magari saranno i nostri che cercano di muovere le acque”. Solo una battuta, trasformata però in certezza. Un cliché che purtroppo s’è ripetuto troppe volte.
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