Psicosi e chi la semina facendo mostra di non entrarci

di Lucio Fero
Pubblicato il 10 Marzo 2022 - 09:43 OLTRE 6 MESI FA
Psicosi e chi la semina facendo mostra di non entrarci

Psicosi e chi la semina facendo mostra di non entrarci FOTO ANSA

Psicosi nuova parolina magica del ponzio pilatismo della comunicazione. Nuova poi neanche tanto, di certo però la parolina più conforme e se stesso che ha trovato il radicato ormai vezzo della comunicazione. Funziona così: dico e titolo che é “psicosi” e così me ne lavo le mani, fuori mi chiamo, esibisco alibi e patente di libera circolazione di irresponsabilità. Dico “psicosi” e poi piazzo, comunico e diffondo per filo e per segno, non disdegnando enfasi ed allarme, quel che sarebbe “psicosi” e cioè alterazione patologica della realtà.

Dico “piscosi”, cioè percezione patologica della realtà e poi piazzo, comunico e diffondo la realtà psicotica, volutamente lasciando incerti e indefiniti, anzi cancellati i confini tra la realtà e la realtà psicoticamente percepita. Dico “psicosi”, cioè che non è realtà e poi dettagliatamente inserisco la realtà psicotica nella cronaca dei fatti quotidiani. Dico “psicosi” e poi con naturalezza ci inzuppo il pane delle cronache con il sugo della percezione patologica della realtà.

Lavoro alienato, lavoro a distanza (dal reale), inconsapevolezza acquisita o congenita…

Secondo cronache diffuse gli italiani starebbero facendo incetta, anzi razzia di generi alimentari. Qualche cronaca comincia con “non siamo alla tessera annonaria ma quasi…”. Ovviamente ognuna di queste cronache è preceduta dall’avvertenza “psicosi” a formare un singolare percorso informativo: non è vero, ti avverto che non è vero, anzi mi cautelo e riparo dietro l’avvertenza caso mai tu dovessi capire e credere che è vero…Detto questo, ti racconto con piacere e dovizia lo svilupparsi del non reale, ne faccio una cronaca fedele e massiccia…di quello che non c’è. Basta andarci in un supermercato, magari quello sotto casa, per vedere che nel mondo reale non c’è razionamento, lotta per accaparrarsi il cibo che scarseggia o proprio non c’è più.

Ma perché la comunicazione, l’informazione sente l’insopprimibile richiamo a descrivere Milano o Roma qui e oggi con le parole e i concetti adatti ad una Milano quando c’era la peste o ad una Roma quando c’era l’occupazione nazista? Forse sarà una super super super alienazione del produttore dal proprio lavoro: il giornalista copista ricopia e ricopia in modalità alienante fino a perdere cognizione del valore di ciò che produce. Forse una sorta di neo “fordismo” vigente nelle modalità produttive dell’informazione, una catena di montaggio punto qualcosa zero e una spruzzata di marxiana appunto alienazione. Forse, nella migliore delle ipotesi.

La vita è un’altra cosa

O forse, più probabilmente, lavoro a distanza, a troppa e consolidata distanza. Distanza non dalle redazioni, dai luoghi di lavoro. Distanza consolidata e abituale dal reale, anche la propria realtà. Così che non è inconsueto che il giornalista che ha appena comunicato e scritto della “psicosi che svuota gli scaffali” poi non corra a far scorte, se ne guarda bene. Perché ovviamente non ci crede nemmeno lui, ha interiorizzato come normalità che il suo lavoro e si suoi prodotti lavorativi siano altra e diversa cosa dalla vita reale, a partire dalla sua. Sono comunicati, dichiarazioni, agenzie, tweet…Lui, il giornalista riferisce di questi, la vita è un’altra cosa.

Non sapere, a che serve?

O forse, ed è la peggiore, è inconsapevolezza strutturale e programmatica della comunicazione e informazione. La consapevolezza del reale considerata come inessenziale alla realizzazione del prodotto, se non come ingombro. Inconsapevolezza congenita, quasi obbligata nelle veloci modalità produttive e per forza di cosa commisurata ad una distribuzione del prodotto sempre più on time? Alibi, tenue. Tenero, patetico, corporativo più che sindacale. E’ evidente che qui e oggi in Italia non c’è l’assalto ai forni, la carestia imminente, la ressa e rissa e il cibo razionato. Il farlo balenare è figlio di inconsapevolezza non congenita all’informare ma acquisita come licenza furbetta e insieme pigrissima di diffondere balle attribuendole alla “psicosi”. Di certo un’altra psicosi in atto c’è: quella per cui comunicazione e informazione così fatte hanno su quantità e qualità della loro credibilità. Le percepiscono alte  e intangibili ed è appunto una percezione patologicamente, psicoticamente distorta del reale.