ROMA – Dal Pakistan all’Algeria passando per quella che era la mezzaluna fertile e per il Corno d’Africa, senza dimenticare l’Indonesia. E’ il “fronte della jihad”, dell’islamismo non solo integralista ma anche macellaio pronto e voglioso di far la guerra, tagliare non solo metaforicamente la testa all’infedele Occidente. Quell’Occidente che, nonostante fermamente non voglia, più prima che poi sarà costretto a decidere in che modo vorrà combattere o quale resa vorra trattare con il movimento jihadista che gli ha dichiarato guerra. Il presidente Usa Obama ha appena autorizzato l’aviazione militare americana a bombardare le milizie del Califfato in Iraq del Nord se queste sono colte in flagrante scannamento di cristiani. Non è che un inizio di quel che arriva.
Guardando un ideale planisfero, quello che abbiamo identificato come il “fronte della jihad”, è una linea che ha la sua estremità orientale in Indonesia. Qui ha la sua base Jamaah Islamiyah, organizzazione che opera principalmente in Indonesia e ha come obiettivo la costruzione di un califfato in tutto il Sud Est asiatico. Jamaah Islamiyah è considerata responsabile dell’attentato a Bali in una discoteca nel 2002 in cui morirono più di 200 persone tra cui molti turisti stranieri. Il gruppo ha poi rivendicato anche gli attacchi al Mariott e al Ritz di Jakarta.
Muovendosi verso occidente, il secondo punto caldo del fronte è a cavallo tra Pakistan ed Afghanistan, specie nelle ormai celebri aree tribali dove Al Qaeda detta legge e dove anche lo stesso Osama Bin Laden trovò il suo ultimo rifugio, non in una grotta isolata ma in un sorvegliatissimo compound. La zona, soprannominata Af-Pak dalle forze armate Usa, è quello dove operano le cellule madri di Al Qaeda di cui fa parte anche il successore di Bin Laden, Ayman al-Zawahiri. A livello operativo tuttavia questo fronte è valutato come meno caldo rispetto ad altri, a causa della decimazione dei vertici di Al Qaeda nella regione e dell’uso costante in Pakistan di droni per colpire i terroristi da parte delle forze speciali americane.
Spostandosi ancora verso ovest, ed avvicinandoci all’Europa, troviamo il punto da sempre più delicato del conflitto. Punto che oggi più che mai è quello che preoccupa maggiormente il mondo occidentale: il medio oriente. Qui convivono l’Iran, oggi paradossalmente diventato il paese più moderato dell’area dopo l’uscita di scena di Mahmud Ahmadinejad, l’Iraq, la Siria ed Israele. La Siria è protagonista da tempo ormai di una sanguinosa guerra civile dove il sanguinario presidente Assad è, di fatto, il più fiero oppositore dei miliziani islamisti. Più a sud l’Iraq del dopo Saddam Hussein, un paese di fatto senza o quasi controllo centrale dove imperversano le milizie dell’Isis che conquistano una città dietro l’altra e che hanno, solo stanotte, convinto il presidente Usa Barack Obama ad autorizzare bombardamenti mirati. E poi la sempre inquieta zona dei Territori Palestinesi ed Israele, teatro in questi giorni di una nuova guerra, ma da 50 anni spina nel fianco delle diplomazie di tutto il mondo e volano della questione islamica.
Più a sud ancora, lo Yemen. Qui, nel 2009, in un video intitolato “Da qui noi cominciamo e a Gerusalemme ci incontreremo”, Nasir al Wahayshi, Said al Shihri, Qasim al-Rayami e Muhammad al-Awfi annunciarono ufficialmente la nascita di Al Qaeda nella Penisola Araba, organizzazione che da allora si presenta come la fusione delle due precedenti estensioni territoriali di Al Qaeda, quella yemenita e quella saudita. Il 25 dicembre del 2009 Aqap rivendicò il tentativo del nigeriano Umar Farouk Abdulmutallab di far esplodere un aereo di linea della Northwest Airlines diretto a Detroit. Ma il gruppo è responsabile anche di rapimenti e di attacchi ad ambasciate e truppe governative. E qui operano droni americani che colpiscono i capi locali della jihad.
Proprio di fronte, il Corno d’Africa e la Somalia dove è protagonista Al Shabaab. Un gruppo islamista attivo in Somalia considerato la cellula somala di Al Qaeda con cui si è fusa nel 2012. Guerriglieri del Golfo Persico e jihadisti di tutto il mondo sono stati chiamati a partecipare alla guerra santa di Al-Shabaab contro il governo somalo ed i suoi alleati etiopi. Sono stati loro ad introdurre in Al-Shabaab la tecnica degli attentati suicidi, cui inizialmente il gruppo non ricorreva.
Infine, lungo il fronte della jihad e sempre in Africa, sulla costa mediterranea del continente troviamo l’Egitto dove solo un nuovo regime militare riesce a contenere l’esuberanza dell’integralismo islamico. E poi l’Algeria, la Libia e i paesi della primavera araba che, con modi e tempi differenti, sembrano scivolare verso governi teocratici non esattamente nemici della jihad. In ultimo, in NIgeria, il gruppo della Gente della Sunna per la propaganda religiosa e la Jihad (in lingua hausa Boko Haram). Un’organizzazione terroristica jihadista nata nel 2002 per opera dell’imam Mohammed Yusuf, che mira alla creazione di uno stato islamico in Nigeria e all’imposizione della Sharia. I militanti di Boko Haram sono collegati ad altri gruppi terroristici, tra cui il Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento (Al Qaeda del Maghreb islamico, attivo in Libia, Marocco, Algeria, Mali) che fornisce loro armi, denaro e addestramento al combattimento. In aprile, il gruppo ha rapito 200 studentesse a Chibook per venderle come schiave suscitando l’indignazione globale sfociata nella campagna Bring Back Our Girls.
Un fronte che si estende dall’Indonesia all’Atlantico e con cui l’occidente dovrà inevitabilmente confrontarsi. Un fronte alimentato, per non dire generato, anche dalle politiche, spesso miopi o sconsiderate, proprio di “noi” occidentali. Politiche che sono state prima colonialiste, in un ormai lontano passato, e che poi hanno imposto la creazione dello stato di Israele. Politiche che hanno avallato interventi militari, come quello in Iraq, che avevano l’obiettivo dichiarato di esportare la democrazia e che invece hanno finito col consegnare il paese alla più assoluta ingovernabilità. E politiche che hanno sostenuto, caldeggiato e sponsorizzato, quella che è stata definita la primavera araba, percepita come una ventata di democrazia in una zona del mondo che questa non conosceva e che invece era, come alcuni sostenevano, sostenuta dalla capacità e da motivazioni di intransigenza religiosa.
L’Occidente ha le sue colpe che gli tornano in volto come boomerang. Ma oltre a queste c’è qualcosa di cui l’Occidente non ha responsabilità. L’odio per la modernità non nasce e domina in Occidente, anche se talvolta ci abita. L’orrore per le donne che vanno a scuola non è occidentale. Le condizione della donne come animale domestico non è difesa e promossa da leggi e religioni occidentali. Il martirio in battaglia non è più da tempo un mito occidentale. Il monoteismo che è vera fede se cancella ogni altra fede da secoli non è più Chiesa occidentale. Tutto questo è Islam militare e militante.
Riguardiamo la linea della guerra santa: dall’Himalaya fino all’Atlantico, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Siria alla Somalia, dalla Libia alla Nigeria e più l’enclave islamica in Europa mai pacificata del Caucaso, è una falce che ci carezza la gola. Facciamo più o meno finta di nulla. Per non peggiorare, inasprire la situazione e per non doverci domandare se e come siamo in grado e in condizione di allontanare la mano che impugna la falce alla nostra gola. Allontanarla o tagliarla se dovesse ferire. Faremmo volentieri a meno della domanda e della risposta ma la falce della guerra santa contro di noi ci toglierà dall’imbarazzo e ci costringerà a rispondere in fretta, prima di tutto a noi stessi.
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