BERLINO – Dopo trent’anni tornano in Europa, nucleari e non intercettabili. Sono i missili che la Russia ha installato nella sua enclave incastonata tra Polonia, Mar Baltico e Paesi Baltici: Kaliningrad. Qui Mosca ha schierato quei missili a breve-medio raggio che l’accordo dei tempi Regan-Gorbaciov aveva fisicamente fatto distruggere. Missili con una capacità operativa in grado di raggiungere Berlino e missili che presuppongono una deterrenza diversa a quella in cui negli ultimi decenni c’eravamo abituati.
“Firmato da Mikhail Gorbaciov e Ronald Reagan in epilogo di Guerra Fredda – scrive Stefano Stefanini su La Stampa – il Trattato Inf fu il primo grande passo verso la riduzione degli armamenti nucleari e convenzionali. Eliminare i missili a breve-media gittata (furono fisicamente distrutti) significava escludere la possibilità di annientamento nucleare senza preavviso. Lo spiegamento di Kaliningrad è un passo indietro di quarant’anni. Costringerebbe anche la Nato a rivedere la propria dottrina di deterrenza nucleare”.
Presentati come una risposta alle manovre Nato nella zona – l’enclave di Kaliningrad è circondata da Paesi aderenti all’Alleanza Atlantica -, i missili dislocati da Mosca non possono essere considerati una semplice risposta alle misure degli alleati di Washington. Missili e testate atomiche da una parte, e quattro battaglioni dall’altra non sono infatti paragonabili. Rappresentano invece ottimamente lo stato della geopolitica attuale e la capacità dei due principali attori di questa partita: Vladimir Putin e Donald Trump.
Il primo, esperto e navigato leader di una nazione tornata super potenza mondiale ci ha abituato al suo modo di fare cinico, non sempre corretto e solo occasionalmente rispettoso del diritto internazionale. Crimea e Ucraina in generale sono lì a ricordarlo, e non sono gli unici esempi ma solo quelli geograficamente più vicini. Il secondo invece, l’immobiliarista diventato Presidente, mostra in questa partita tutta la sua inesperienza e anche le difficoltà in cui si trova in conseguenza al Russiagate, al legame cioè di una fetta della sua amministrazione proprio con Mosca. L’inesperienza, che in questo caso è debolezza, viene sfruttata da Putin. E poco importa che proprio ora Trump abbia annunciato una visita dal sapore riparatorio in Polonia, per ribadire l’alleanza col Paese che confina con l’enclave russa in questione e che quindi più di tutti si sente minacciato dall’esuberanza dell’ingombrante vicino.
Prima di questa visita annunciata e molto più significativamente di questa, il Presidente Usa aveva sin dalla campagna elettorale ribadito che che i Paesi membri della Nato avrebbero dovuto pagare di più per mantenere in piedi l’Alleanza. Avrebbero dovuto cioè versare più fondi nelle casse della Nato rimpinguate in larga parte con i dollari di Washington. E poco importa che moltissimi Paesi versino oggi come ieri meno di quanto stabilito dagli accordi Nato. Il risultato delle parole di Trump è stato un indebolimento politico, forse momentaneo, dell’Alleanza Atlantica. Subito colto da nemico- amico Putin. Il generale John Rutherford Allen non ha peli sulla lingua – racconta ancora La Stampa -:
“La Nato e i suoi membri hanno motivo di preoccuparsi di questa violazione gratuita del Trattato Inf. La Nato dovrà prendere in considerazione misure per difendersi da questa nuova minaccia russa”. Ex capo della coalizione internazionale anti-Isis, ora dirige uno studio sull’adattamento dell’Alleanza Atlantica agli scenari contemporanei di sicurezza, cui partecipa anche l’ex ministro della Difesa, ammiraglio Giampaolo Di Paola. Le sfide sono molte, dalla guerra informatica ai flussi migratori. Il rapporto finale uscirà a fine anno, ma l’analisi di questo strappo russo è chiara: la Russia ha identificato un tallone d’Achille della Nato nell’incapacità di saldare l’indivisibilità della sicurezza alla deterrenza nucleare