ROMA – Due pezze, due toppe sono quelle che stanno venendo cucite in queste ore attorno agli sfilacciati confini della vecchia Europa. A sud, in Grecia, si va verso una qualche “soluzione ponte” che consenta ad Atene di pagare gli stipendi almeno sino all’estate con in aggiunta, forse, una dilazione sul pagamento dei debiti. Ma senza chiamarla soluzione ponte e neanche chiamarla estensione perché altrimenti sull’uno o l’altro termine Merkel e Tsipras non ci sta. Figurasi che soluzione, che solidità della toppa, ce durata della pezza…
E soprattutto senza affrontare il vero problema dell’economia ellenica, e cioè che la patria di Socrate, programma elettorale di Tsipras alla mano, continuerà a produrre debito, e le politiche promesse dal premier Alexis Tsipras prevedono la creazione di nuova spesa certa e documentata a fronte di maggiori entrate ipotetiche e auspicate. Quando anche, e così non è, si arrivasse ad allungare quasi all’infinito i tempi e a variare altrettanto all’infinito i modi con cui l Grecia ripaghi i debiti contratti, quando anche ad Atene fossero concessi nuovi prestiti, senza un cambio dei propri connotati la Grecia clientelare ha un modello sociale e produttivo che fabbrica deficit e debito. Non sembra che nessuno in Grecia, Tsipras, incluso voglia farsi carico di questo fardello, di questo cambiare. Simmetricamente nessuno in Europa vuole intestarsi l’espulsione della Grecia dall’euro e i relativi e imponderabili rischi globali. Insomma una pezza per la Grecia e non è detto neanche che si riesca ad applicarla con la precisione di un cerotto.
Ad est invece, in Ucraina, o meglio in Bielorussia dove si sono incontrati il presidente Russo Vladimir Putin ed il premier ucraino Petro Poroshenko, sotto lo sguardo preoccupato di Angela Merkel e Francois Hollande, si è trovato un accordo per un cessate il fuoco. E solo per il cessate il fuoco. Il che, viste le premesse del vertice, è più o meno il minimo sindacale. Come aveva detto Hollande, “l’alternativa era la guerra”. Meglio, molto meglio una tregua che la guerra. Ma anche qui la questione vera non ha avuto soluzione: quale sarà lo status internazionale, l’estensione, l’autonomia e il governo delle regioni orientali dell’Ucraina sono ancora una domande senza risposta. E, quel che è peggio, le risposte verranno dalla prosecuzione dello scontro, da una probabile altalena tra il si tratta e il si spara.
“I leader che hanno partecipato ai colloqui di Minsk sulla crisi in Ucraina hanno trovato un accordo, dopo una maratona notturna di 16 ore. Previsto un cessate il fuoco a partire dal 15 febbraio, scatterà alla mezzanotte del sabato. Finché non sarà raggiunta una tregua completa tutte le parti dovrebbero mostrare moderazione ed evitare spargimenti di sangue inutili – ha detto Vladimir Putin annunciando l’intesa – Al vertice è stato concordato anche il ritiro delle armi pesanti dalla linea del fronte del conflitto. Tutti i prigionieri di guerra del conflitto nel Donbass saranno liberati ‘entro 19 giorni’ secondo una ‘formula tutti per tutti’, ha aggiunto il presidente ucraino Petro Poroshenko”, raccontano le ultime cronache in arrivo dalla Bielorussia. “Ottimo risultato commenta”, forse frettolosamente, il premier Matteo Renzi. Ma le facce della coppia Merkel-Hollande al termine dell’incontro, e soprattutto il loro “c’è ancora molto da fare…”, rivelano un risultato meno entusiasmante.
La questione centrale, e cioè se la futura Ucraina sarà decentralizzata come vorrebbero gli europei oppure federale come vorrebbe Putin, non ha soluzione e le posizione russe da una parte ed ucraine dall’altra restano molto distanti. “Nei due casi, al di là della differenza semantica – scrive Bernardo Valli su Repubblica -, le province in mano ai filo russi (Donetsk e Lugansk) diventeranno autonome, e dal livello di autonomia che otterranno potranno più o meno condizionare il potere centrale di Kiev. E impedirgli di aderire alla Nato e all’Unione europea. Non a caso alla parola ‘federazione’ Petro Poroshenko si infuria. Quella è invece per Putin la parola chiave sulla quale ruota la trattativa”. L’accordo trovato sul cessate il fuoco è quindi una non-soluzione in quanto non affronta la questione vera e lascia, anzi, trasparire quanti pochi passi in avanti siano stati fatti.
Spostandosi di circa duemila chilometri ad ovest, a Bruxelles, le cose non migliorano. Lì, nel cuore dell’Europa intesa non solo in senso geografico, si sta tentanto di mediare una soluzione per il problema Grecia. Atene è quasi con l’acqua alla gola, nel senso che la sua liquidità sta per finire, e come sintetizza Federico Fubini ancora su Repubblica, è vicina al punto “quando tutto si ferma: il punto al quale il governo di Atene si trova privo di liquidità per assicurare gli stipendi pubblici, le pensioni e i più elementari pagamenti che permettono a uno Stato di funzionare. È il confine che separa l’ordine sociale dal caos, distante ormai solo qualche settimana se un accordo fra Tsipras e il resto d’Europa non arriva presto”. Un punto di non ritorno distante non giorni ma settimane e che solo il governo di Atene conosce con precisione. E il punto che significherebbe anche l’uscita della Grecia dalla moneta unica. Ipotesi che ancora dopo l’elezione del leader di Syriza era data come improbabile e che ora, se verrà evitata, lo sarà in virtù di un accordo che come per l’Ucraina non rappresenta una soluzione del problema.
“Per parte propria – racconta Fubini – il nuovo premier in parlamento ad Atene lunedì e martedì ha dato l’impressione di essere prigioniero della sua stessa retorica belligerante. Dopo aver cancellato la tassa sulla casa, ha persino promesso ai greci che le scadenze residue si sarebbero potute versare ‘in cento rate’. Ovvio che moltissimi abbiano subito smesso di pagarle, che il bilancio sia sempre più in deficit e il premier popolarissimo”. Poche righe che portano a galla la vera questione. Perché se è ancora probabile che un accordo per garantire l’immediata liquidità e un compromesso per la dilazione nei decenni del debito di Atene vengano trovati, non solo non ha risposta ma nemmeno è stata affrontata la questione di come la Grecia farà a smettere di produrre debito. E’ infatti evidente che se si produce più debito di quanto se ne paga, il passivo non può che aumentare. In questa caso sarebbe l’Ocse a trattare con Atene per delle riforme che, forse ma non è stato nemmeno ancora promesso, dovrebbero ‘guarire’ l’economia ellenica. Ma a meno di avere una specie di formula magica è difficile immaginare soluzioni in grado di conciliare le promesse di Tsipras, come la riassunzione di circa 3000 impiegati pubblici, l’aumento del salario minimo, la riapertura della tv pubblica, con la riduzione del deficit. La seconda pezza.