Salvatore Sfrecola ha pubblicato questo articolo anche sul suo blog, Un sogno italiano, con il titolo “La “decretite”, malattia grave della democrazia parlamentare”.
La malattia l’ha scoperta Michele Ainis, e l’ha chiamata “decretite” ed ha come sintomi un eccesso di ricorso ai decreti legge, cioè a quei provvedimenti “provvisori con forza di legge” che il governo può adottare “in casi straordinari di necessità e d’urgenza”, ai sensi dell’articolo 77 della Costituzione. Li adotta “sotto la sua responsabilità” ed hanno una vita limitata: 60 giorni entro i quali le Camere devono convertirli in legge, pena la loro decadenza.
Osserva Ainis che questo Governo, più degli altri che lo hanno preceduto, ha fatto ricorso a questo strumento straordinario che, come abbiamo appena letto nella disposizione costituzionale, attiene a situazioni di necessità ed urgenza in relazione alle quali non sarebbe possibile ricorrere ad un disegno di legge che ha tempi di approvazione necessariamente più lunghi.
Osserva ancora Ainis, e ne ha fatto ripetutamente oggetto di osservazioni critiche anche questo giornale, che il governo Renzi, molto più degli altri che negli ultimi anni sono ricorsi frequentemente all’uso del decreto-legge, ha adottato provvedimenti all’evidenza privi dei requisiti della straordinarietà e dell’urgenza e comunque affollati di norme le più varie, evidentemente nell’intento di intervenire in più settori.
Chi ha pratica di queste vicende o soltanto un po’ di memoria storica dell’attività parlamentare sa bene che nei governi della cosiddetta prima Repubblica vigeva una regola ferrea, quella che un testo normativo dovesse recare una disciplina omogenea, sicché si tenevano fuori tutti gli argomenti che non fossero compatibili con la materia trattata. Li si bloccava dicendo che non era la sedes materiae.
E non è solo questo il problema che Ainis ha riportato all’attenzione del dibattito politico istituzionale. La tecnica utilizzata, un breve dibattito parlamentare, la presentazione da parte del Governo di un maxiemendamento e la proposizione della questione di fiducia, di fatto espropriano le Camere della funzione primigenia, quella di essere il legislatore in un ordinamento parlamentare. Si legge infatti nell’articolo 70 della Costituzione che “la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”.
Vorrei dire di più, perché l’ho osservato più volte. Si assiste ad una sorta di pantomima tra Governo e la sua maggioranza perché si procede con qualche emendamento, evidentemente concordato, che trova accoglienza nel maxiemendamento e sanzione nella votazione sulla fiducia.
Inoltre, le statistiche delle quali Ainis dà conto con riferimento agli ultimi governi, dimostravano un crescente ricorso al decreto-legge ed una riduzione dei provvedimenti legislativi di iniziativa parlamentare o governativa. Ancora, l’uso del decreto-legge al di fuori dei limiti previsti dalla Costituzione che per la verità avrebbe dovuto censurare in primo luogo il Capo dello Stato, considerato che quei provvedimenti hanno la forma di decreti presidenziali, non è l’unica lesione delle prerogative parlamentari. Perché in violazione di un altra importante norma costituzionale, l’articolo 76, “l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se norme con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”, accade, invece, come danno conto i giornali e i dibattiti televisivi di queste ultime settimane, la cosiddetta “delega lavoro” è sostanzialmente “in bianco”, nel senso che quei principi e criteri direttivi richiesti dalla costituzione per l’esercizio della funzione normativa da parte del governo non si rinvengono nel testo in discussione in Senato. E lo dimostra il fatto che i difensori di questo provvedimento continuano a rinviare ai decreti legislativi di attuazione la concreta definizione delle norme che lo caratterizzarebbero.
“Decretite” e deleghe “in bianco” costituiscono una lesione grave delle prerogative parlamentari e del ruolo di rappresentanza popolare dei deputati e dei senatori. Non si tratta soltanto di un aspetto formale, sia pure incidente su un aspetto istituzionale fondamentale. L’espropriazione dei poteri del Parlamento, in uno alla trasformazione del sistema bicamerale che va molto al di là del necessario superamento del bicameralismo perfetto, denotano un indirizzo politico che tende a trasferire poteri fondamentali dalle Camere al Governo, con una trasformazione della Repubblica da parlamentare, come l’avevano voluta i nostri costituenti, in direttoriale, nella quale prevale il ruolo del Presidente del consiglio e dei suoi ministri.
La scelta fin qui operata, di mettere la “mordacchia” al Parlamento, non costituisce infatti una ragionevole definizione di un nuovo rapporto tra legislativo ed esecutivo in funzione di una maggiore efficienza dello Stato ma costituisce una evoluzione pericolosa per la democrazia perché opera in un contesto nel quale già oggi i parlamentari sono nominati dalle segreterie di partito e non scelti dagli elettori.
La democrazia è uno strumento difficile di governo dei popoli, esige equilibri di poteri secondo l’insegnamento di Montesquieu, il padre dei moderni regimi liberali, e richiede un confronto nelle sedi istituzionali al fine di migliorare il funzionamento di governo e Parlamento allo scopo di assicurare la buona gestione della cosa pubblica.
L’evoluzione in atto ha un sapore autoritario desumibile non solo da decreti legge e leggi di delega ai quali abbiamo fatto riferimento ma dalle stesse parole della Presidente del consiglio, ostile al dialogo e al confronto, una posizione politica che si può comprendere rispetto agli eccessi degli anni passati ma che non si giustifica nelle forme che sta assumendo in questa stagione della vita politica italiana.