Regioni, errore storico. Monti con la sua riforma potrà rimediare?

di Salvatore Sfrecola
Pubblicato il 13 Ottobre 2012 - 08:40 OLTRE 6 MESI FA

Salvatore Sfrecola ha scritto questa appassionata, e amara, analisi dell’istituzione Regioni. Con poche speranze che le cose possano cambiare, anche se l’augurio è che la riforma avviata da Mario Monti almeno limiti i danni.

Rissose e spendaccione, come attesta la cronaca di ogni giorno, le regioni italiane sono un “errore” storico e giuridico al quale va posto rapidamente rimedio nell’interesse dello Stato e delle stesse comunità regionali.

Le regioni sono un errore storico perché, in realtà, risalendo nei secoli non si trovano mai il Lazio, l’Umbria, la Lombardia e via dicendo, ma comuni e principati con esperienze, tradizioni, culture diverse, financo nei dialetti, spesso a pochi chilometri di distanza.

La storia, quella vera, quella che la gente sente, sta nei campanili e nelle province, molto più omogenee rispetto alle regioni, enti politico-amministrativi costruiti per motivi politici in sede di assemblea costituente, cresciuti all’ombra di questo o di quel partito, autentici statarelli nei quali si sperimenta un centralismo che fa impallidire quello che si addebitava allo Stato che, per la verità, lo esercitava attraverso i prefetti, funzionari di elevata sensibilità politica e amministrativa che non si sono mai prestati a prevaricazioni politiche nei confronti dei sindaci e dei presidenti delle province come forse alcuni politici di Roma avrebbero desiderato.

La Capitale era lontana, il capoluogo della regione molto più vicino e pressante nei confronti degli oppositori.

Le regioni sono, altresì, un errore politico istituzionale perché i poteri loro conferiti dalla riforma costituzionale del Titolo V non hanno di uguali negli ordinamenti regionali o federali, nei quali lo stato centrale mantiene attribuzioni di interesse nazionale e prerogative dirette a garantire il rispetto di quell’interesse.

Andate a chiedere al Presidente degli Stati Uniti – che è repubblica federale a tutti gli effetti – se deve ricorrere alla conferenza Stato – Regioni per definire delicati aspetti della legislazione di interesse generale. Lui, il Presidente, il Formigoni di turno neppure lo chiama al telefono se c’è una emergenza in materia sanitaria o se vuole realizzare opere pubbliche di interesse federale.

Invece nel nostro Paese, in un momento di follia, addebitabile ad ambizioni egemoniche, in questo davvero bi-partizan, della sinistra quanto della destra, in alcune aree, alle regioni sono state attribuite competenze legislative in materie certamente di interesse nazionale. Non solo, ma le regioni sono divenute il legislatore “generale”, cioè quello al quale è attribuita la competenza a decidere su tutto ciò che è giuridicamente rilevante e non è di competenza dello Stato, nel senso che “spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”, secondo una ripartizione contenuta nell’articolo 117 della Costituzione.

Un assurdo, intrinseco non solo nella circostanza che 20 legislatori generali sono decisamente troppi, ma perché materie come le “grandi reti di trasporto e di navigazione” o il “coordinamento della finanza pubblica”, ascritti alla legislazione concorrente, costituiscono una palla al piede che la comunità nazionale non può più permettersi.

Inoltre, eliminati i controlli dello Stato sulle Regioni, che effettivamente incidevano su una autonomia che comunque andava salvaguardata, non sono stati istituiti altri controlli “esterni”, come quelli della Corte dei conti, che non sono esercitati nell’interesse dello Stato centrale ma dell’ordinamento in funzione della legalità e del buon andamento.

Così il Governo Monti, che ha sperimentato l’impotenza di mettere mano alla arroganza dei “governatori” e al dispendio delle risorse di bilancio, del quale sono piene le cronache, ha deciso di avviare una nuova riforma che sia coerente con le dimensioni del Paese e con la necessità di sviluppare l’economia delle singole aree geografiche.

Dobbiamo ancora una volta dire che aveva ragione da vendere Marco Minghetti, che nel 1862, ministro dell’interno, propose di dar vita a consorzi di province, una realtà storico politica più coerente con le nostre tradizioni.

Non si avrà il coraggio di abolire le regioni. Ci vorrebbe non una legge di revisione ma una nuova costituente, ma mancano gli uomini, quelli che, tra il 1946 ed il 1947, seppero mediare nell’interesse della comunità nazionale traumatizzata dalla guerra e da una transizione istituzionale certamente forzata.

Rispetto agli Einaudi, ai De Gasperi, ai Togliatti, ai Calamandrei, ai Ruini oggi in Parlamento e nei partiti si aggirano controfigure modestissime, con scarsa conoscenza del diritto e nessuna conoscenza della storia delle istituzioni. Gente che ha voluto o accettato il porcellum e non trova modo di disfarsene perché non vuole. Quale altra legge darebbe maggiori poteri alle ristrette oligarchie dei partiti?

Siamo messi male. È per questo che cresce, pur nel malcontento delle misure restrittive che hanno colpito tutti, la stima per Mario Monti, nel quale la gente riconosce certamente una personalità di spicco, quanto a competenza e capacità di decidere.