ROMA – Salvatore Sfrecola ha scritto questo articolo per il blog Unsognoitaliano.it
“La politica e le Pubbliche Amministrazioni – Ho rivolto più volte, almeno ad ogni cambio di governo, un appassionato appello ad una riforma radicale delle pubbliche amministrazioni.
La tesi è semplice: l’apparato amministrativo, con le leggi che individuano attribuzioni e definiscono i procedimenti e con la professionalità degli addetti, costituisce lo strumento per governare i fenomeni sociali, cioè per realizzare le politiche pubbliche in tutti i settori, dalla scuola alla sicurezza, dalle infrastrutture all’industria, al commercio, al turismo.
Con la conseguenza che se le attribuzioni e le procedure intestate agli apparati pubblici non sono adeguate alle esigenze, se il personale non corrisponde per professionalità, per numero e per distribuzione territoriale alle necessità, l’apparato non funziona adeguatamente con effetti di gravissima inefficienza.
Per cui occorre intervenire rapidamente con le iniziative del caso. Quindi si opera sulle leggi, sui regolamenti e sulle prassi individuando quelle più virtuose per rispondere alla richiesta di servizi che proviene dai cittadini e dalle imprese. E quanto alle professionalità è troppo tempo che non si conduce una ricognizione delle esigenze. Le amministrazioni nascono con dotazioni organiche riferite alle funzioni assegnate, tanti giuristi, economisti, statistici, ingegneri, fisici, e via enumerando geometri, ragionieri, ecc..
Un tempo, per esemplificare, il Ministero dei lavori pubblici aveva i “sorveglianti idraulici”, dovevano navigare lungo i fiumi per verificare lo stato delle sponde ed accertare che non vi fossero le condizioni per esondazioni, accumulo di alberi, di detriti, interventi ebusivi e quanto altro potesse disturbare il normale deflusso delle acque. L’Italia aveva, dunque, un apparato efficiente. Oggi quegli stessi obiettivi si possono raggiungere diversamente, con telecamere, ricognizione aerea, ecc.
Sempre nel settore dei lavori pubblici per onestà intellettuale va detto che il “genio civile” nel corso della storia d’Italia ha unificato il Paese e l’ha ricostruito dopo la seconda guerra mondiale.
Altra categoria praticamente scomparsa è quella dei dattilografi, un tempo essenziali per battere a macchina provvedimenti amministrativi ed atti giudiziari. Oggi tutti gli impiegati pubblici dispongono di un computer. I funzionari scrivono i loro provvedimenti, i giudici le loro sentenze.
Bene, tutte queste situazioni sono note alla dirigenza pubblica ed alla politica. E tutti concordano sul fatto che vadano cambiate leggi e procedimenti per rendere gli apparati più rispondenti alle esigenze che provengono dalla società civile. Come ricordano tutti quando si richiamano le difficoltà degli operatori economici, italiani ed esteri. I primi, quando possono si trasferiscono al di là della frontiera, i secondi si guardano bene dall’intraprendere iniziative in Italia. A parte le variabili della pressione fiscale e della criminalità presente ormai un po’ dappertutto che impedisce la libera concorrenza, che è regola fondamentale dell’Unione Europea.
Tutti concordano sulla diagnosi, spesso anche sulla terapia. Ma nulla cambia. Incapacità dei governi, freno delle lobby e dei sindacati? Un po’ di tutto. Per cui si comprende che il Presidente del Consiglio abbia affrontato subito il problema Pubblica Amministrazione intendendo dotarsi di un apparato adeguato ai cambiamenti che vuole perseguire. Che poi parli di “rivoluzione”, usando un linguaggio poco usuale ad un uomo di governo si può comprendere considerate le profonde trasformazioni che ha in mente per restituire efficienza all’apparato pubblico e rendere competitivo il nostro Paese.
Passando dalle parole ai fatti c’è da fare alcune considerazioni. Non tanto sul linguaggio che accompagna certe esternazioni del Premier, la “rivoluzione”, la “ruspa”, l’“aggressione”, parole di una comunicazione certamente efficace in vari ambienti ma non tra quelli interessati, com’è ovvio. Renzi è un abilissimo comunicatore, come tutti hanno potuto constatare, e non c’è dubbio che l’aggressione a 360 gradi a tutte le realtà che intende modificare abbia la finalità di gettare lo scompiglio perché nessuno si senta al sicuro ed accetti il “male minore” che viene prospettato.
Come nel caso del tetto agli stipendi degli alti manager e degli alti magistrati. Chi è sotto il tetto si è sentito al riparo. Sbagliando perché è evidente che una riforma complessiva non potrà non portare alla riparametrazione dei trattamenti economici, perché sarebbe ingiusto che un generale guadagni come un colonnello e questi poco più del maggiore, e via discorrendo.
In questo senso Matteo Renzi ha anche dimostrato in più occasioni di non avere la misura giusta delle cose che conosce non per cognizione diretta avendo una esperienza limitata ad una amministrazione locale, tra l’altro di piccole dimensioni, dove le difficoltà non mancano ma si risolvono spesso davanti ad un caffè tra funzionario e assessore e tra questo e il sindaco.
E difatti nel documento che viene chiamato “linee guida”, approvato nel Consiglio dei ministri del 30 aprile in forma di “lettera ai dipendenti pubblici” (che ha invitato a scrivere a rivoluzione@governo.it) questa mancanza di esperienza si nota in pieno, con riferimento a istituti già esistenti e spacciati come novità e ad altri già sperimentati e miseramente falliti.
Insomma, un insieme di idee buone ma anche di soluzioni un po’ azzardate quando non palesemente inadeguate che il Premier con i suoi “bollenti spiriti” e il “giovanile ardore”, per riprendere una espressione di Francesco Maria Piave librettista de La Traviata, tenta di dare una spallata all’esistente a fini indubbiamente nobili. Che tuttavia sarebbe stato possibile perseguire in modo da evitare reazioni che, nelle condizioni da lui create, rischiano di determinare congiunzioni di interessi che non sarà facile superare. A parte i sindacati, nella maggior parte dei casi assolutamente screditati nell’ambito del pubblico impiego.
Forse il Premier si è accorto di aver sbagliato linguaggio, o forse gli è stato fatto notare, Ha smorzato i toni e rettificato il linguaggio che era stato percepito come denigratorio in modo generalizzato dai pubblici dipendenti. Un comportamento che il Presidente del Consiglio che è il capo degli impiegati pubblici non può assumere perché non è comunque giusto. Se, infatti, gli apparati non funzionano come dovrebbero e come il governo vorrebbe spesso questa scarsa performance non è (o non è solo) responsabilità degli addetti, ma della classe politica di governo che non ha saputo cambiare ordinamento e attribuzioni e in taluni casi non ha voluto o saputo dare adeguate direttive amministrative, previste dalla legge. E, pertanto, si sentono vittime di una ingiustizia.
Renzi lo ha capito tanto che all’inizio della lettera ai dipendenti pubblici afferma che “non si fanno le riforme della Pubblica Amministrazione insultando i lavoratori pubblici”. Sulle sponde del Tevere i nostri antenati dicevano excusatio non petita, accusatio manifesta. Una scusa non richiesta è una accusa manifesta, per chi non ha dimestichezza con la lingua dei nostri maggiori.
Ma ogni ripensamento è gradito e accettato. L’intelligenza sta nel capire gli errori e nel modificare atteggiamenti. Anche nel cambiare collaboratori, per la verità, quando ci si accorge della loro estremo modestia. Accadrà anche questo. L’uomo è intelligente e capirà che non si va avanti con le battute popolari, gli slogan ed i luoghi comuni e collaboratori senza esperienza specifica in settori ad elevata specializzazione giuridica ed organizzativa. Anche un po’ di conoscenza storica e di ordinamenti comparati non guasterebbe. Se ne nota la mancanza.
Il Capo del Governo deve motivare i suoi uomini, come farebbe un generale pronto alla battaglia. Immaginate un condottiero che dicesse che i suoi soldati sono incapaci di combattere e felloni. Andrebbe da solo contro il nemico.
Veniamo, dunque, al documento, alla lettera “aperta”, si potrebbe definire, ai pubblici dipendenti che intendiamo commentare richiamando pedissequamente il testo, anzi premettendo il testo alle nostre considerazioni in modo che sia sempre evidente l’appezzamento o la critica.
Il documento di apre con una espressione “Vogliamo fare sul serio”, certamente apprezzabile e di impatto positivo sull’opinione pubblica, anche se a noi, che crediamo nelle istituzioni, sembra naturale, cioè normale, che il Presidente del Consiglio ed il Governo facciano “sul serio”.
Nell’impegno a fare “sul serio”, espressione di sicuro effetto mediatico in una realtà politico-amministrativa nella quale si ha l’impressione che si sia a lungo fatto finta di fare nonostante gli slogan che hanno accompagnato gli ultimi venti anni di storia, a cominciare dalla qualificazione di alcuni provvedimenti come “del fare” il Governo delinea un quadro d’insieme assolutamente condivisibile.
“L’Italia ha potenzialità incredibili”, è l’incipit di questa parte introduttiva. Se finalmente riusciamo a mettere in ordine le regole del gioco (dalla politica alla burocrazia, dal fisco alla giustizia) torniamo rapidamente fra i Paesi leader del mondo. Il tempo della globalizzazione ci lascia inquieti ma è in realtà una gigantesca opportunità per l’Italia e per il suo futuro. Non possiamo perdere questa occasione.
Vogliamo fare sul serio, dobbiamo fare sul serio.
Il Governo ha scelto di dare segnali concreti. Questioni ferme da decenni si stanno finalmente dipanando. Il superamento del bicameralismo perfetto, la semplificazione del Titolo V della Costituzione e i rapporti tra Stato e Regioni, l’abolizione degli enti inutili, la previsione del ballottaggio per assicurare un vincitore certo alle elezioni, l’investimento sull’edilizia scolastica e sul dissesto idrogeologico, il nuovo piano di spesa dei fondi europei, la restituzione di 80 euro netti mensili a chi guadagna poco, la vendita delle auto blu, i primi provvedimenti per il rilancio del lavoro, la riduzione dell’IRAP per le imprese. Sono tutti tasselli di un mosaico molto chiaro: vogliamo ricostruire un’Italia più semplice e più giusta. Dove ci siano meno politici e più occupazione giovanile, meno burocratese e più trasparenza. In tutti i campi, in tutti i sensi.
Fare sul serio richiede dunque un investimento straordinario sulla Pubblica Amministrazione. Diverso dal passato, nel metodo e nel merito.
Nel metodo: non si fanno le riforme della Pubblica Amministrazione insultando i lavoratori pubblici. Che nel pubblico ci siano anche i fannulloni è fatto noto. Meno nota è la presenza di tantissime persone di qualità che fino ad oggi non sono mai state coinvolte nei processi di riforma. Persone orgogliose di servire la comunità e che fanno bene il proprio lavoro.
Compito di chi governa non è lamentarsi, ma cambiare le cose. Per questo noi, anziché cullarci nella facile denuncia, sfidiamo in positivo le lavoratrici e i lavoratori volenterosi. Siete protagonisti della riforma della Pubblica Amministrazione”.
Partiamo da quest’ultima affermazione. Non sarò stato il primo ma certamente l’ho detto e ripetuto più volte. La pubblica amministrazione, nei suoi dirigenti e nei suoi funzionari doveva essere da tempo protagonista della riforma.
Perché se è vero, come ho sempre sostenuto, che all’interno degli apparati pubblici vi sono professionalità di straordinario valore, dotate anche di sensibilità politica, nel senso della capacità dei funzionari di percepire le esigenze della società in rapporto alla domanda di servizi e di sviluppo che proviene dai cittadini e dalle imprese, la riforma avrebbe dovuto trovare la propria genesi proprio all’interno della Pubblica Amministrazione.
Chi, infatti, se non i funzionari avrebbe potuto suggerire al potere politico la revisione degli ordinamenti e delle procedure per rendere efficiente l’amministrazione, strumento essenziale per perseguire le finalità individuate nell’indirizzo politico amministrativo quanto alle politiche pubbliche? Sarebbe stato un normale scatto d’orgoglio professionale per chi “è al servizio esclusivo della Nazione” (art. 98 Cost.) farsi protagonista della riforma. Invece abbiamo dovuto constatare una persistente difficoltà di immaginare il nuovo, nonostante il confronto con le burocrazie degli altri stati dell’Unione suggerisse nuovi modelli di efficienza.
Ma anche qui non si può addossare tutta la responsabilità ai funzionari. Perché il potere politico nulla ha fatto per coinvolgere l’apparato in ipotesi di riforma. Anzi, quando governo e parlamento hanno messo mano ad iniziative riformatrici le conseguenze sono state devastanti, dalle leggi Bassanini, che hanno disarticolato l’Amministrazione e il sistema delle garanzie di legalità, alla riforma del Titolo V della Costituzione, votata a cuor leggero per fare, alla vigilia delle elezioni del 2001, concorrenza alla Lega che reclamava la devoluzione, con la conseguenza di complicare il sistema della attribuzioni, fare delle regioni il legislatore generale (di tutto ciò che è giuridicamente rilevante) e togliere allo Stato competenze naturalmente di carattere nazionale, come il turismo, il nostro petrolio, e paralizzare la Corte costituzionale che dal 2001 lavora prevalentemente per dirimere controversie tra le regioni e lo Stato. Riforme tutte ripudiate da chi le aveva promosse e votate, in particolare quella costituzionale, approvata con pochi voti di maggioranza da ua Sinistra pasticciona, quando la legge fondamentale dello Stato meriterebbe la più ampia condivisione.
Su altre riforme promesse del Governo è lecito nutrire notevoli perplessità. A cominciare dalla riforma del Senato. Per superare il bicameralismo perfetto, riforma ampiamente e da tempo auspicata, la proposta, affrettata e di tono minore, pressoché inutile, svilisce il ruolo della più antica assemblea parlamentare, accompagnata da un “prendere o lasciare”, incompatibile con il carattere costituzionale di una normativa naturalmente destinata a durare negli anni.
Proseguiamo nella lettura del testo del Governo.“Nel merito: abbiamo maturato alcune idee concrete. Prima di portarle in Parlamento le offriamo per un mese alla discussione dei soggetti sociali protagonisti e di chiunque avrà suggerimenti, critiche, proposte e alternative. Abbiamo le idee e siamo pronti a intervenire. Ma non siamo arroganti e quindi ci confronteremo volentieri, dando certezza dei tempi”.
L’idea è apparentemente espressione di una apertura al dialogo. In realtà all’indirizzo di posta elettronica indicato arrivano decine di migliaia di messaggi, i più riguarderanno minutaglie, con la conseguenza che è da escludere un apporto significativo. Chi legge le mail, chi le valuta? È evidente che siamo di fronte, nella migliore delle ipotesi, ad uno spot pubblicitario, ad un gesto di buona volontà privo di conseguenze pratiche.
Le nostre linee guida sono tre.
· Il cambiamento comincia dalle persone. Abbiamo bisogno di innovazioni strutturali: programmazione strategica dei fabbisogni; ricambio generazionale, maggiore mobilità, mercato del lavoro della dirigenza, misurazione reale dei risultati, conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, asili nido nelle amministrazioni.
· Tagli agli sprechi e riorganizzazione dell’Amministrazione. Non possiamo più permetterci nuovi tagli orizzontali, senza avere chiari obiettivi di riorganizzazione. Ma dobbiamo cancellare i doppioni, abolendo enti che non servono più e che sono stati pensati più per dare una poltrona agli amici degli amici che per reali esigenze dei cittadini. O che sono semplicemente non più efficienti come nel passato.
· Gli Open Data come strumento di trasparenza. Semplificazione e digitalizzazione dei servizi. Possiamo utilizzare le nuove tecnologie per rendere pubblici e comprensibili i dati di spesa e di processo di tutte le amministrazioni centrali e territoriali, ma anche semplificare la vita del cittadini: mai più code per i certificati, mai più file per pagare una multa, mai più moduli diversi per le diverse amministrazioni”.