ROMA – La valanga dei derivati rischia di trascinarci in un mulinello senza fondo. E’ passata quasi in sordina, perché è difficile orientarsi tra swap e altri termini esoterici, la vicenda del rimborso alla banca americana Morgan Stanley, che ci è costato 3,4 miliardi di dollari (e quindi 2,6 miliardi di euro).
Stanno venendo al pettine i nodi delle azioni intraprese, a metà degli anni ’90, per ridurre l’indebitamento formale dell’Italia e consentirci di rientrare negli allora chiaccheratissimi paramentri di Maastricht, città dove furono firmati gli accordi che portarono al rafforzamento dell’Unione europea e alla nascita dell’euro.
Sta venendo alla luce del giorno lo strumento che ha permesso di spostare nel tempo una grossa fetta di debito pubblico. Si chiarisce la causa della irrequietezza dei mercati verso il nostro debito pubblico e la sua affidabilità, lo spread si ricollega allo swap, nell’abbraccio asfissiante del derivato. Parole misteriose, gergali, che scandiscono la nuova litania penitenziale del 2012.
Le nostre prospettive, come contribuenti, sono tragiche. Dal patto di stabilità europeo (Fiscal compact) ci verranno vent’anni di stangate come l’ultima assestataci da Monti; partiranno con un anno in ritardo, ma non sfuggiremo. Il rischio da derivati ne vale una ventunesima: sarà in fondo, come l’ultima rata del mutuo, o ce la infliggeranno ad ogni disastro tipo Morgan Stanley?
Si può solo sperare che la ripresa economica del mondo trascini anche noi, perché dall’aumento dei taxi e delle farmacie e dei notai (se ci sarà) ci verrà in tasca ben poco. Ma è matematico che non ci saranno vent’anni d boom. Così si spiega la spinta della Bce a diffuse privatizzazioni, non solo di proprietà statali, ma anche di aziende pubbliche locali. Obiettivo fare cassa, recuperare soldi, pagare debiti.
Quel che fu fatto quindici anni fa e poi ancora dieci anni fa fu giusto, perché se l’Italia non fosse entrata nell’euro e nell’Europa a pieno titolo non saremmo arrivati al benessere che ancora ci privilegia, nonostante anni di recessione e una crisi ulteriore indotta dalla politica del Governo Monti.
Quel che non è accettabile è, come hanno scritto i più coraggiosi commentatori di economia, la mancanza di trasparenza. Non si può dare torto a Alessandro Penati quando scrive su Repubblica che i cittadini italiani hanno il diritto di “sapere quale sia complessivamente l’esposizione in derivati dello Stato, e con quali banche; soprattutto perché ognuno di noi si accolla 32.500 euro di debito pubblico”.
Anche dà fastidio l’essere stati trattati in tutti questi anni senza rispetto alcuno per l’intelligenza media degli italiani. Prima ci illudono col sol dell’avvenire, ci promettono il paradiso già su questa terra (Berlusconi) poi ci randellano di tasse, ci fanno vivere un’eterna quaresima (Monti), ma alla fine continuiamo a essere sudditi non cittadini, al massimo ragazzi fragili che devono essere protetti dalla verità.
In questa operazione dei derivati sono un po’ tutti coinvolti dal duo Amato – Ciampi a Prodi a Berlusconi. Mario Monti ci è stato portato per i capelli, non da un improvviso impeto di verità ma dalle leggi americane che hanno imposto a Morgan Stanley di spiegare tutti quei miliardi e dalla bravura di un reporter dell’agenzia finnziaria Bloomberg che ha spulciato nelle informative alla Sec, la Consob americana, e ha reso pubblica la notizia.
La vicenda è uscita sui giornali italiani di rimbalzo e con oggettive difficoltà di comprensione e spiegazione, cosa che ha fatto supporre a illustri collaboratori di importanti giornali, di fatto critici con quelle stesse testate, fenomeni di servilismo e di connivenza. In realtà un conto è scrivere di bunga bunga e un altro è capire i misteri dello swap.
La pagina economica di Repubblica di domenica, raccontando la storia il giorno dopo il Corriere della Sera, ha il pregio di una maggiore chiarezza, anche se a mettere i puntini sulle i è intervenuto poi il giorno dopo l’economista Alessandro Penati. La prima notizia è stata che l’Italia “ha pagato 3,4 miliardi di dollari a Morgan Stanley per uscire da una scommessa sui tassi d’interesse. Per questo, la banca d’affari ha annunciato di aver tagliato la sua «esposizione netta» verso il Tesoro nazionale dello stesso importo”.
Citando Bloomberg, Repubblica riferisce: “In base ai dati raccolti l’Italia, già gravata da un debito-monstre, avrebbe perso sui derivati più di 31 miliardi di dollari agli attuali valori di mercato. La cifra pagata a Morgan Stanley equivale a circa la metà della somma che il governo conta di incassare quest’anno dall’aumento dell’Iva”.
Come ha scritto Penati, “nell’analisi dei bilanci vale il principio dello scarafaggio: se ne vedi uno, ce ne sono molti”. Per questo “bisognerebbe sapere se, come stima Bloomberg, le perdite nette dello Stato in derivati ammontino veramente a 24 miliardi di euro (presumo a prezzi di mercato): sarebbe un punto e mezzo di Pil. Ed è debito pubblico sommerso”. Per questo Penati giustamente, ma si teme anche vanamente, chiede una “informativa sulla posizione in derivati” che “dovrebbe essere estesa a tutte le amministrazione pubbliche, vista la storia dei danni che i derivati hanno fatto agli enti locali”.
La storia risale, nella ricostruzione che Repubblica attribuisce a Bloomberg, a “quando i debiti contratti dall’Italia hanno sfondato i mille miliardi di euro a metà anni 90”; allora ha avuto inizio l’utilizzo degli swap sui tassi d’interesse “e le cosiddette swaptions (opzioni per entrare in uno swap) per tagliare i costi del servizio del debito”.
Si tratta di quell’operazione di trasformazione del debito pubblico in altra cosa che ha consentito di nascondere alcuni punti di Pil sotto il tappeto e di presentarci a testa alta all’appuntamento europeo. Si tratta delle stesse cose che mesi fa aveva scritto il Wall Street Journal e prima ancora, lo aveva scritto Blitzquotidiano basandosi su un articolo di Gustavo Piga su una rivista economica americana. Ma nessuno, in tutti questi anni, aveva avuto interesse a sollevare il tappeto. I padri della patria Ciampi e Amato e il padre dell’euro Prodi (che anzi si infuriò quando poche righe apparvero su qualche giornale) forse perché la faccenda avrebbe sporcato la loro aureola e Berlusconi, che ne avebbe potuto trarr eun vantaggio propagandistico, accortamente ha evitato il rischio di dover poi fare pulizia lui, preferendo passare la ramazza a Monti.
Prosegue il racconto di Repubblica: “I cinque principali operatori di swap Usa sono: oltre alla Morgan Stanley, Goldman Sachs, Bank of America, Citigroup e JpMorgan Chase. Complessivamente hanno un’esposizione netta sui derivati con l’Italia di 19,5 miliardi di dollari. Cifra che, sommata agli importi relativi alle banche europee rese note nel corso degli stress test condotti dalla European banking authority, porta l’ammontare a 31 miliardi di dollari”, cioè i 24 miliardi di euro di Penati.
Il percorso da compiere per uscire da questo pantano è indicato dall’economista Gustavo Piga in cinque punti:
1. La Banca Centrale Europea di Mario Draghi faccia quello che non ha fatto la Banca Centrale Europea di Jean-Claude Trichet in questi anni e risponda all’interrogazione dell’agenzia di stampa Bloomberg sui contenuti dello/degli swap greco/i. Non vi è nessuna ragione al mondo per mantenere il segreto su quanto avvenne allora. Vi sono una buona decina di ragioni per essere trasparenti al riguardo.
2. La Commissione europea pubblichi tutti i dati dei derivati dei paesi dell’Unione europea dal 1990 ad oggi e renda obbligatorio da ora in poi la pubblicazione sui siti europei e nazionali delle nuove operazioni di derivati.
3. Il Governo Monti anticipi la Commissione europea e rimuova ogni ambiguità rivelando tutte le posizioni aperte in derivati ed il loro valore di mercato da parte del Governo italiano.
4. La stampa europea richieda a gran voce che i punti 1. e 2. siano assolti. Ogni giornalista italiano inviato a qualsiasi conferenza stampa del Presidente del Consiglio o di esponenti del Ministero di Economia e delle Finanze da ora in poi ponga come prima domanda la domanda 3.
5. Monti scelga con occhio imparziale e senza riguardo alcuno per suggerimenti impropri il nuovo Direttore Generale del Dipartimento del Tesoro del Ministero dell’Economia e delle Finanze, cui compete gestire il debito pubblico italiano, comprese le operazioni in derivati. E dunque, tra le altre cose, gettare luce su quanti derivati detiene in pancia lo Stato italiano (che caratteristiche hanno, con quali controparti sono stati effettuati, qual è il loro valore di mercato) e decidere la politica futura su di essi, compresa la svolta di trasparenza necessaria per rassicurare i mercati finanziari data l’oscurità di quanto fatto sinora e la difficoltà di capire che ruolo hanno giocato i derivati e la loro gestione nell’alzare lo spread italiano nei passati mesi ed anni.
Tanto meritano i cittadini italiani. Nulla di più nulla di meno. Trasparenza e verità.