MY LAI (VIETNAM), 16 marzo 1968. Il pianto atroce di un bimbo stride sotto i corpi ammassati nel canale. Avrà 2 o 3 anni al massimo, la mamma gli ha fatto scudo col suo corpo, sotto la raffica di spari. Mentre il piccolo, ricoperto di fango e sangue, tenta di farsi strada gattonando tra il mucchio di cadaveri, incontra il calcio arrogante del tenente William Calley che lo ricaccia giù nel fosso e gli spara in testa. E’ l’ultimo atto agghiacciante di una delle pagine più buie della guerra del Vietnam, una carneficina incomprensibile tristemente nota come il massacro di My Lai.
Quella mattina di sabato un contingente americano di circa un centinaio di soldati, noto come la Compagnia Charlie (11a Brigata), approdò nel piccolo villaggio della provincia di Quang Ngai, 840 km a Nord di Saigon. Dalle scarse informazioni militari ricevute credevano di trovare nascosti lì alcuni ribelli del Fronte Nazionale per la Liberazione del Sud Vietnam, i cosiddetti Vietcong. Così gli aveva riferito il capitano Ernest Medina che li aveva spediti in missione, ma ad accoglierli c’erano solo contadini inermi, vecchi, donne e bambini. Nonostante ciò i soldati americani, su ordine del tenente Calley, svuotarono i caricatori sui civili disarmati. Buttarono le bombe a mano nelle capanne. Violentarono le ragazzine in branco e poi le trucidarono con le baionette. La pancia di una donna incinta fu squartata con un machete, il feto lanciato lontano nelle sterpaglie. Vecchi, donne e bambini furono raccolti in piccoli cerchi e falciati con le mitragliatrici. Un orrore senza limiti dinanzi al quale forse anche un plotone dell’Isis impallidirebbe.
A fermare la mattanza fu il pilota di un elicottero dell’esercito Usa in ricognizione, che atterrò frapponendosi tra i soldati americani e i superstiti vietnamiti. Il sottufficiale Hugh Thompson Jr. affrontò i capi delle truppe americane e disse che avrebbe aperto il fuoco su di loro se non si fossero fermati. Poi diresse l’evacuazione del villaggio, mentre due membri del suo equipaggio, Lawrence Colburn e Glenn Andreotta, tenevano i soldati sotto tiro. Salvarono 11 vite, gli unici superstiti.
Il numero delle vittime non fu mai stabilito con certezza, anche perché i soldati, per nascondere l’eccidio, gettarono bombe a mano sui corpi e incendiarono le capanne. Forse 70, come sentenziò la Corte Marziale, 347 dice la stima ufficiale statunitense, 504 secondo il piccolo museo memoriale vietnamita che sorge oggi in mezzo alla vegetazione e al silenzio. Nel rapporto militare il capitano Medina scrisse che erano stati uccisi 90 Vietcong e nessun civile.
Ci vollero due anni e la tenacia di un reporter freelance di nome Seymour Hersh per arrivare ad un processo. Fu lui a raccontare la storia come la conosciamo oggi: lo scoop gli valse il Premio Pulitzer ma prima dovette passare per il rifiuto di importanti testate fotogiornalistiche come Life e Look. Il massacro di My Lai divenne di pubblico dominio solo quando Hersh riuscì a scrivere un articolo per la Associated Press in cui svelava l’inchiesta del tribunale militare nei confronti del sottotenente Calley e metteva in dubbio il numero reale di morti.
Quarantasette anni dopo Hersh è tornato sulla “scena del crimine”: in un lunghissimo articolo apparso sul New Yorker il giornalista rievoca l’inchiesta che lo rese celebre raccontando i retroscena e gli insabbiamenti e ricostruendo con infinita dovizia di particolari le interviste fatte alla maggior parte dei membri della Compagnia Charlie. Molti di loro sostennero, anche dinanzi alla Corte marziale, di non aver sparato ribellandosi agli ordini del tenente Calley. Tra quelli che obbedirono c’era invece il soldato scelto Paul Meadlo che per primo gli concesse un’intervista. La mattina dopo il massacro Meadlo calpestò una mina antiuomo durante un pattugliamento di routine e perse il piede destro. In attesa dei soccorsi, tra le braccia del tenente Calley, gli disse: “Dio ti punirà per quello che mi hai fatto fare”.
La prima indagine su My Lai fu affidata allo stesso comandante dell’11ma Brigata, il Colonnello Oran Henderson, su ordine dell’assistente comandante della Divisione Americal, BG Young. Henderson interrogò diversi soldati coinvolti nel massacro e appena un mese dopo produsse un rapporto in cui si parlò dei primi 22 civili “uccisi inavvertitamente in scontri col nemico”. I rapporti ufficiali e il giornale dell’esercito Usa, Stars and Stripes, continuavano a celebrare le gloriose gesta dei soldati che avevano espugnato “una postazione Vietcong fortemente difesa”. Persino il generale William Westmoreland mandò le sue congratulazioni personali alla Compagnia Charlie.
Sei mesi dopo altra indagine, altra “candeggiatura”: un allora 31enne Colin Powell in qualità di Maggiore dell’Esercito, fu incaricato di investigare su una lettera che un giovane soldato di nome Tom Glen aveva scritto al Generale Creighton Abrams, comandate dell’esercito Usa in Vietnam. Il contenuto della lettera riecheggiava altre lamentele ricevute dopo My Lai e denunciava le violenze perpetrate dai soldati statunitensi ai danni della popolazione sud-vietnamita, senza però fare nomi. Il futuro segretario di Stato di Bush nel suo report scrisse: “In totale disaccordo con tale descrizione c’è il fatto che i rapporti tra soldati americani e la popolazione vietnamita sono eccellenti”.
Il caso sarebbe rimasto insabbiato se non fosse intervenuto un altro coraggioso soldato, Ron Ridenhour, che era venuto a conoscenza dei fatti di My Lai. Ridenhour cominciò ad investigare per conto suo su quelle voci poi confermategli da un membro della Compagnia Charlie, Michael Bernhardt, il più deciso oppositore di quella giornata atroce. A differenza di Glen però Ridenhour scavalcò le gerarchie per evitare censure e scrisse una lettera in trenta copie, al presidente Usa, Richard Nixon, al Pentagono, al Dipartimento di Stato ed a numerosi membri del Congresso. La maggior parte dei destinatari ignorò la lettera ad eccezione del democratico Morris Udall. Quest’ultimo fece pressioni sull’Esercito affinché inviasse una squadra investigativa a intervistare Ridenhour. Sei mesi dopo e diciotto dal massacro, il tenente Calley fu accusato dell’omicidio di 109 vietnamiti.
A novembre del ’69 l’America tutta vide l’orrore per la prima volta: My Lai era la cover story dei maggiori quotidiani statunitensi. La CBS mandò in onda l’intervista di Seymour Hersh a Paul Meadlo, Life Magazine pubblicò le fotografie di Ronald Haerberle, scattate sul campo il giorno della strage. E il governo degli Stati Uniti convocò una commissione del Pentagono a porte chiuse, a dirigerla fu chiamato il generale a 3 stellette William Peers. Per 4 mesi la commissione Peers interrogò 398 testimoni, dal generale Koster, comandante della divisione “Americal” fino ai soldati semplici della Compagnia Charlie. Il rapporto Peers, in oltre 20 mila pagine di testimonianze, criticò il comportamento sia degli ufficiali che dei soldati; raccomandò di prendere provvedimenti contro dozzine di militari per stupro, omicidio o partecipazione al depistaggio. Un uomo solo fu punito: il tenente William Calley. Il suo diretto superiore, il capitano Medina, venne assolto.
Il processo a Calley divise in due l’America. Quelli a favore della guerra dicevano che aveva compiuto il suo dovere, obbedendo agli ordini. Quelli che erano contro affermavano che Calley non era altro che un capro espiatorio. Provvidenziale fu la data in cui la giuria si ritirò per deliberare: era il 16 marzo 1971, il giorno del terzo anniversario del massacro, tre settimane più tardi Calley fu dichiarato colpevole dell’omicidio di almeno 16 civili. Fu condannato all’ergastolo e ai lavori forzati. In seguito la pena gli venne commutata in arresti domiciliari e dopo appena tre anni e mezzo Nixon gli concesse il perdono. A conti fatti Calley ha scontato meno di due mesi per ognuna delle vittime per cui era stato riconosciuto colpevole e meno di quattro giorni per ciascun civile assassinato.
Si dice che la verità sia la prima vittima della guerra e My Lai è un nome che in inglese risuona quasi beffardo: come “my lie”, la mia menzogna. La bugia di un massacro inutile e criminale, che fu a lungo sottaciuto dai diretti responsabili fino alle alte sfere dell’Esercito e del governo proprio mentre in America esplodeva il ’68 e montava la protesta pacifista. Gianni Riotta in un articolo apparso sul quotidiano la Stampa, ha rievocato il lato oscuro di quella che dall’eccidio di My Lai in poi fu chiamata la “sporca guerra”. “La strage era la regola“, scrive Riotta ricordando come le linee di comando civili e militari, per convincere una riluttante opinione pubblica che la guerra volgesse a loro favore, sposarono una tattica sanguinosa: il cosiddetto “body count”, contare i nemici caduti e sbandierarne il numero crescente come misura della presunta debolezza dei comunisti di Hanoi. Le proporzioni salirono da 24 vietcong uccisi per ogni americano morto a quella assolutamente surreale di 134 a uno. Nel conto, spesso e volentieri, finirono braccianti, donne e bambini innocenti.
Riotta cita e sposa la tesi di Nick Turse, autore del libro Così era il Vietnam (2013), tra i più documentati nell’immensa letteratura prodotta sull’argomento. Andando a spulciare in archivi rimasti a lungo riservati, documenti della corte marziale, rapporti del Pentagono, interrogazioni ai veterani, Turse giunge alla conclusione che le atrocità dei militari americani contro la popolazione vietnamita (civili non vietcong) siano state molte di più di quelle storicamente ammesse. L’ordine era: “Sparate contro tutto quel che si muove“. Il risultato, inenarrabile.
Quando gli uomini della Compagnia Charlie approdarono in Vietnam erano ragazzi qualsiasi pescati nella lotteria della leva militare, preparati in fretta e furia in appena 16 settimane di corso. La guerriglia asimmetrica dei vietcong li spiazzò, per mesi videro i loro compagni saltare in aria nei campi minati e cadere sotto il fuoco nemico nella giungla. A ogni perdita gli animi si logoravano e crescevano le pressioni dall’alto, per aumentare il bottino dei morti come pretendevano i generali.
Oltretutto la popolazione sudvietnamita che resisteva ai tentativi di conquista del Nord comunista era spesso riluttante anche verso gli americani, teoricamente intervenuti per assisterli nella loro lotta patriottica. E le truppe statunitensi ben presto cominciarono a provare insofferenza nei loro confronti. Non giustifica, ma spiega l’escalation di rabbia e di violenze perpetrate, con la complicità talvolta di ordini vaghi dall’alto, che lasciavano ampio spazio per un’improvvisazione sul terreno. Calley e i suoi soldati non cercavano vittorie, cercavano vendetta per i compagni uccisi, sfogo per la loro esasperazione, e corpi da contare, per concludere la missione e tornare in fretta a casa. Quando la loro “sporca bugia” fu svelata in patria, il mito dell’America invincibile e esportatrice di civiltà cominciò a sgretolarsi.
My Lai fu solo la più massiccia delle stragi: era così in tutto il Vietnam. I dettagli erano diversi da zona a zona, ma lo schema era il medesimo. Un esempio tipico fu l’operazione Speedy Express avviata dal generale Julian Ewell nello strategico nonché popolatissimo delta del fiume Mekong, dove i vietcong si infiltravano per i loro raid contro le truppe americane. Non a caso Ewell fu soprannominato il “macellaio del Delta”: la sua specialità erano le incursioni con gli elicotteri, gli uomini scaricati a terra alle porte dei villaggi avevano espresso mandato di rientrare col maggior “numero di corpi”. I risultati erano gli stessi di My Lai: guerra indiscriminata contro la popolazione del Vietnam del sud.
A trarre le giuste conclusioni è Nick Turse:
“Se un uomo e la sua piccola squadra potevano rivendicare di avere più K.I.A. (killed in action), persone uccise durante un’azione rispetto a un intero battaglione, senza alzare bandiere rosse tra i superiori; se un comandante di brigata poteva aumentare il conto dei cadaveri scegliendo e uccidendo impunemente dei civili dal suo elicottero; se un generale poteva istituzionalizzare le atrocità per mezzo dell’uso sregolato di un’enorme potenza di fuoco in zone affollate di civili, allora che cosa ci si doveva aspettare che accadesse lungo le linee, specialmente tra giovani fanti pesantemente armati e impegnati sul campo per settimane, arrabbiati, stanchi e spaventati, spesso non in grado di localizzare il nemico e tuttavia sotto l’implacabile pressione di uccidere?”
Gli scatti del fotografo dell’esercito Usa, Ronald Haerberle