NOME (ALASKA) – Lo stretto di Bering (che ancora aspetta il ponte di Putin) ghiacciato da temperature sotto i 40 gradi, una città dell’Alaska che muore di freddo in attesa di una petroliera russa che con l’aiuto di una nave rompighiaccio sta affrontando un odissea da un mese in uno dei tratti di mare più pericolosi al mondo. C’è materiale per un romanzo di Jack London nell’avventura della petroliera Renda, iniziata quasi un mese fa.
La rotta della petroliera di 112 metri, salpata da Vladivostok il 17 dicembre, è stata delle più tortuose, fra difficoltà di ogni tipo. Problemi con il carico di carburante in Corea del Sud e tempeste che le hanno impedito di dirigersi verso il Giappone. Per rifornirsi del carburante che avrebbe poi dovuto portare a Nome è servita una deroga al “Jones Act”, una legge che impedisce alle navi straniere di fare il pieno negli Stati Uniti. Il “pit-stop” è avvenuto finalmente a Dutch Harbor, in Unalaska, una lingua di terra che si spinge per 3.000 km nell’Oceano Pacifico, quasi 2.000 km a sud di Nome. Fatto il carico, e assicuratasi la scorta della rompighiaccio americana Healy, la Renda ha dovuto fare un’ulteriore deviazione al suo percorso per evitare una delle zone più popolate al mondo di “edredone dagli occhiali”, una delle più rare specie di anatra marina, protetta dalle leggi Usa.
La Healy e la Renda devono procedere una vicina all’altra, a rischio continuo di incidente, con la rompighiaccio che fa da battistrada e la petroliera che segue, in un mare ricoperto da uno strato gelato spesso dai 10 ai 70 centimetri.
Le forti correnti, il rischio di iceberg, strati più spessi di ghiaccio possono rallentare molto il cammino delle due navi. Ora sono circa a 150 km dal porto di Nome. Martedì sono avanzate di 90 chilometri mentre mercoledì di soli 15 metri. Gli spostamenti sono seguiti da un drone, che raccoglie informazioni e immagini che invia ai ricercatori dell’Università dell’Alaska di Fairbanks, i quali elaborano le informazioni e cercano di studiare la rotta più rapida e sicura. Poi c’è il problema del porto di Nome, dove la spedizione potrebbe trovare un muro di ghiaccio invalicabile. Anche lì si sta studiando un percorso che riesca ad aggirare il problema.
Se nonostante tutte queste difficoltà la missione riuscisse, sarebbe la prima spedizione di carburante attraverso i ghiacci di tutta la storia dell’Alaska. Nome infatti riceve di solito le sue provviste di carburante per l’inverno nei primi giorni d’autunno, prima che ghiaccino le acque dello Stretto di Bering. Ma quest’autunno numerosi rinvii e una forte tempesta hanno lasciato la cittadina di 3.500 anime senza la scorta di carburante.
Molta gente qui ce l’ha con la Bonanza Fuel, una delle due compagnie petrolifere locali che non è riuscita a portare a termine il rifornimento per l’inverno. Le autorità dicono che Nome potrebbe restare a secco a partire da marzo. Una normale petroliera non ce la riuscirebbe a sbarcare nel porto prima che il ghiaccio si sciolga, a giugno.
Era già successo che Nome fosse in difficoltà: fu salvata dai cani da slitta. Successe durante l’epidemia di difterite nel 1925. La cittadina contava 1.400 abitanti portati fino a quelle latitudini dalla corsa all’oro. Non c’era l’antitossina necessaria per curare tutti i nuovi casi (la scorta, datata 1918, era finita l’estate precedente) e il porto era chiuso per ghiaccio. Raccontano le cronache dell’epoca:
A questo punto, grazie ad un consiglio di emergenza convocato da Welch, Nome fu messa in quarantena e fu ordinato urgentemente un milione di unità di antitossina. La scorta più vicina (trecentomila unità, che pesavano in tutto circa nove chili) si trovava ad Anchorage, che distava più di millesettecento chilometri e non era direttamente collegata a Nome, ma una ferrovia arrivava solo fino a Nenana, a quasi mille chilometri da Nome. Il maltempo non permetteva agli aerei di alzarsi in volo e gli iceberg non permettevano alle navi di attraccare.
Per risolvere il problema si scelse di usare il metodo che da sempre era utilizzato per trasportare la posta: i cani da slitta. Venne organizzata una staffetta di venti mute di cani da slitta che si assunsero il compito di trasportare l’antitossina da Nenana a Nome, distanti seicento miglia: partì un certo Edgar Bill Shannon che fece 52 miglia fino a Tolovana, dove una squadra fresca comandata da Edgar Kalland prese l’antitossina e la portò fino a Manley, che percorse 31 miglia, toccò poi a Green con 28 miglia fino al lago Fish dove trovò Johnny Folger che fece 26 miglia fino a raggiungere Sam Joseph che incontrò Titus Nikotai dopo 34 miglia. Nikotai fece 24 miglia, poi Dave Corning con 30 miglia, poi Hewnry Pitka sempre con 30, McCarty 28, Edgar Noller 24, George Noller (il fratello) 30, Tommy Patsy 36, l’indiano Koyokuk 40, Victor Anagick 34, Myles Gonagnan 40. Fu poi il turno di Leonhard Seppala, il guidatore più abile dell’Alaska che con il suo cane Togo (leader di Seppala da ben sette anni), il più veloce della zona, fece 91 miglia da solo, anche se ne avrebbe dovuto fare molte di più (150) se non avesse tagliato attraverso la pianura Norton, dove il ghiaccio era particolarmente sottile. Continuò Charlie Olson con 25 miglia e qui fu la volta di Gunnar Kaasen, che trasportò l’antitossina per le restanti 53 miglia con l’altro cane di Leonard Seppala, che il proprietario considerava buono solo per portare la posta per brevi tratti: Balto, che arrivò in città il 2 febbraio 1925. L’antitossina aveva percorso 674 miglia in circa 127 ore e mezzo (poco più di cinque giorni) con una temperatura media di 40 gradi sotto zero (arrivò infatti congelata), i normali corrieri lo facevano in 25 giorni.
I cani da slitta continuano a correre fino a Nome, nella Iditarod race a marzo, ma non ci sono ancora strade che colleghino la sperduta cittadina dell’estremo Alaska occidentale al resto del mondo. Nome potrebbe fare ricorso a carburante fatto arrivare con centinaia di piccole imbarcazioni, ma i costi di trasporto aumenterebbero di 3 dollari a gallone, circa 4 litri. “Sotto i 38 gradi sottozero devi riscaldare la tua casa in qualche modo”, dice Jason Evans, presidente della Sitnasuak Native, che possiede la Bonanza, quasi a dire che da queste parti diesel e benzina non sono un bene superfluo.