“Non pronunciare invano il nome del Signore tuo Dio”. E’ il secondo comandamento nella tradizione cattolica e luterana come scritto nel libro del Deuteronomio. Sembra che non ci sia granchè da interpretare, o si segue o si infrange. Eppure, da sabato 2 ottobre, la Chiesa Cattolica, nella figura di monsignor Rino Fisichella ci spiega che, sì, la legge è legge, ma che, in alcuni casi, occorre “contestualizzare”.
Fisichella, nella mattinata di sabato era a Pisa, a parlare di un confronto tra Chiesa e politica. E’ il giorno dopo il video che mostra il presidente del Consiglio che racconta una barzelletta che si chiude con una bestemmia, e la domanda al monsignore non può non arrivare.
Ci si aspetterebbe una risposta “d’ordinanza”, qualcosa del tipo “è una cosa grave, visto anche il ruolo…”. Ne arriva una diversa, di una diversità che fa riflettere: “Bisogna sempre in questi momenti saper contestualizzare le cose- spiega Fisichella – e, certamente, non bisogna da un lato diminuire la nostra attenzione, quando siamo persone pubbliche, a non venir meno a quello che è il nostro linguaggio e la nostra condizione; dall’altra credo che in Italia dobbiamo essere capaci di non creare delle burrasche ogni giorno per strumentalizzare situazioni politiche che hanno già un loro valore piuttosto delicato”.
Fisichella non spiega, però, come si contestualizza una bestemmia. Una cosa, del resto, difficile da spiegare. Sarebbe come dire: “Beh, se uno è molto arrabbiato e se la prende col Padre Eterno bisogna capirlo, avrà i suoi motivi”, oppure “beh, senza bestemmia quella barzelletta non farebbe ridere”. Viene da chiedersi, però, cosa sarebbe successo se il maschile di orchidea, invece che a Berlusconi fosse scappato a Di Pietro, o a Grillo. Il monsignore avrebbe ugualmente esortato alla contestualizzazione?
Un prelato che spiega che la gravità di un’offesa a Dio dipende dal contesto non si “macchia”, forse, di relativismo, ovvero di quello che secondo Benedetto XVI è il “peggior male del nostro tempo”? Questione oziosa, è vero. Però chi bestemmia da oggi sa che non è proprio peccato ma che dipende…
Rosy Bindi, oggetto della barzelletta del premier, c’è rimasta male: “Fin da piccola mi hanno insegnato a non pronunciare il nome del Signore invano. E’ una profonda, intima convinzione della mia fede, un segno di rispetto verso me stessa e gli altri e una regola di buona educazione. Sarò all’antica, ma mi amareggia profondamente e mi turba constatare che per un pastore della mia Chiesa (anche se voce isolata rispetto a quelle di altri pastori, di Avvenire e Famiglia Cristiana) ci sarebbero occasioni e circostanze nelle quali è possibile derogare anche dal secondo comandamento”. Ma forse, il catechismo cui si ispira la Bindi, è superato dai tempi, e dal contesto.
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