I numeri delle primarie pugliesi – Nichi Vendola 70%, Francesco Boccia 30% – non lasciano spazio alle interpretazioni. Il candidato del Partito Democratico, alle prossime Regionali, sarà il presidente uscente. Lo hanno voluto oltre 150 dei 200 mila pugliesi disposti a fare lunghe code pur di lanciare al Pd un segnale inequivocabile.
Il giorno dopo la vittoria di Vendola, per il Partito Democratico è soprattutto un giorno di riflessione, in primo luogo sulla democrazia interna del partito e quindi sul legame tra la leadership e la base.
Il fattore “D”, ovvero la democraticità del Pd è, senza dubbio, il grande vincitore delle elezioni del 24 gennaio. Non tanto per la vittoria, netta, di Vendola quanto per la forte affluenza alle urne. In Puglia, infatti, hanno votato 200.000 persone: tante, un dato che fa pensare ad una forte voglia di partecipazione diretta della base. Voglia di democrazia, quindi. Una voglia che dovrebbe far riflettere, ad esempio, sull’attuale sistema elettorale che prevede le liste bloccate e l’impossibilità fattuale di votare per il candidato.
Il risultato, invece, spinge a considerazioni diverse. La base del partito, infatti, non si è fatta minimamente influenzare dalle indicazioni della leadership, D’Alema e Bersani su tutti. A conti fatti, i grandi sconfitti di queste primarie, più che Boccia, sono proprio loro: il segretario, apparso titubante sul valore delle primarie e il “lider maximo” che, dopo averle provate tutte “per detronizzare” Vendola porta a casa, nella sua Puglia, un misero 30% dei voti. L’idea sottesa alla politica di D’Alema e cioè che le strategie politiche possano prescindere dalle indicazioni della base ha, perlomeno stavolta, rivelato scarsa aderenza al principio di realtà ed è stata sonoramente sconfitta dalla verifica sul campo.
Le primarie, almeno sulla carta, rappresentano il grande segno distintivo del partito: democrazia diretta, base che sceglie i candidati. Il Pd di Veltroni ne aveva fatto una bandiera, con tanto di inserimento del meccanismo nello statuto. Con Bersani, invece, è cambiato tutto, o quasi: da pilastro portante del partito le primarie sono diventate una “fisarmonica”, uno strumento che si apre o chiude secondo le esigenze della leadership. Un esempio su tutti è il Lazio, dove la base non è stata consultata nonostante la Candidata, Emma Bonino, non sia neppure del Partito.
Ad ammettere che qualcosa nel Pd non funziona è stato proprio Michele Emiliano, il primo anti-Vendola indicato da D’Alema, pronto a fare un passo indietro non appena ha capito che i “numeri” andavano da un’altra parte. «Nichi – ha detto Emiliano – ha impartito una dura lezione al Pd», un modo elegante per dire che la batosta l’hanno presa il segretario incerto e il leader, neppure troppo, occulto.
Il risultato, poi, impone un’altra considerazione: la base del Pd preferisce perdere da sola piuttosto che provare a vincere con Casini. L’alleanza con l’Udc, insomma, si può fare ma senza abdicare alla propria identità. Niente diktat, quindi come ha detto chiaramente il deputato del Pd Mario Barbi parlando di «ricatto centrista respinto».
Il giorno dopo la vittoria, ovviamente, è anche giorno di commenti. D’Alema, amareggiato per la sconfitta, teorizza senza mezzi termini il complotto politico: «C’è chi ha lavorato contro di me, è come se una squadra tifasse per la squadra avversaria».
Rosi Bindi invoca una «riflessione generale» e bacchetta la dirigenza: «si poteva scegliere subito Nichi». Ignazio Marino, invece, prende spunto dal risultato per polemizzare con D’Alema, «la sua visione è diversa dalla mia, ma le persone non scelgono sull’emotività e in base alle dichiarazioni della segreteria ma in base alle risposte che si danno ai loro problemi». «Vendola – ha concluso Marino – entri nel Pd, lo rafforzerebbe». O si indebolirebbe lui?